Chiesa SantAngelo

Chiesa di Sant’Angelo in Munculanis

La Chiesa di Sant’Angelo de Munculanis, fino a pochi anni fa era ritenuta una anonima costruzione settecentesca. Fonti di archivio e la solerzia del priore della confraternita hanno reso possibile riportare alla luce una struttura medievale. I sondaggi prima e i lavori di consolidamento e restauro poi, curati dalla Soprintendenza ai beni ambientali ed architettonici di Caserta, che è stata eseguita dopo una pratica deliberata, hanno liberato all’interno cinque colonne a fusto liscio tutte di spoglio come testimonia la differenza sia di altezza che di materiale, con altret­tanti capitelli databili probabilmente ad epoca medioevale http://trumedical.co.uk/.  All’esterno, in asse con la navata centrale, è stato ripristinato l’ingresso originario sotto il campanile aperto con due bifore romaniche dal capitello a gruccia, sorretto da due colonne a motivi stellari di fattura altomedioevale al di sotto di un arco di tufo a sesto

lievemente ogivale.   Sotto la navata centrale è stata individuata e liberata dai numerosi resti mortali la cripta con sepolture “a scolatoio” come pure sono state messe in luce le monofore originarie nella muratura della navata centrale.

Un elemento molto interessante, già messo in evidenza dal Prof. Cielo, era la soprelevazione del calpestio che “poteva aprire un sollecitante discorso su preesistenze romane” e forse un residuo di pavimento musivo a tessere bianche e nere irregolari, probabilmente del periodo greco (II sec. a.C.), potrebbe riaprire questo discorso at paraskasino.

La struttura riportata alla luce dunque,è a pianta basilicale, tripartita con colonne del periodo longobardo a capitelli altomedievali. L’attuale struttura si riferisce quindi ad un edificio molto probabilmente ristrutturato nello stesso periodo di San Menna (sec. XII), S. Pietro in Romagnano e del Duomo, vista la particolare specificazione stilistica dei capitelli all’interno. Sulla volta c’è un affresco (Pietà) di Angelo Mozzillo, del 1793

Annunziata

Annunziata

Entrando in Sant’agata de’ Goti per la via Caudina, si trova subito il largo Annunziata, ad aiuola, in cui prospetta a destra la chiesa dell’Annunziata,  il cui sito originario risale al 1238 ad opera del Vescovo Giovanni. Nel 1764, S. Alfonso la costituì chiesa parrocchiale per le popolazioni rurali della campagna santagatese. La facciata principale unisce tratti cinquecenteschi e barocchi. La compostezza classicheggiante del portale di pietra presenta same day lend nella lunetta il mistero a cui la chiesa é dedicata: l’annuncio a Maria e l’Incarnazione del Figlio di Dio. L’Eterno Padre, nella cuspide superiore, é parte integrante della scena, scolpita nel 1564 da bravi scultori della scuola napoletana di Annibale Caccavello. Del 1565 è il grande portone d’ingresso in legno mirabilmente restaurato

L’interno è a navata unica con abside a impianto quadrangolare con soffitto a capriate ricostruito di recente su residui di quello originario.  Sulla navata si aprono cappelle barocche. Le vetrate moderne, opere del maestro Bruno Cassinari e regalate alla chiesa nel 1976, si intonano bene all’antico, donando, al visitatore estasiato, watercolour paint fasci di colori vividi e luminosi. I due semiarchi in alto sulle pareti laterali ricordano la copertura effettuata nel 1865 su progetto dell’ingegnere R. Mosera.

La Cappella di S. Giacomo, di stile barocco, è la seconda a destra di chi entra. L’altare, scolpito nel 1714, è opera del Lorenzo Fontana; la statua é del 1719 dello scultore Giovan Battista Antonini. La cappella aveva una funzione anche sociale: provvedere cioè, con le rendite diocesane, alla dote per le ragazze povere ed erogare elemosine ai bisognosi.

La Cappella di S. Biagio è la seconda a sinistra e fu costruita nel 1619. Nel 1703 fu arricchita di stucchi e dei due affreschi di Tommaso Giaquinto che raffigurano Santi nella gloria del paradiso. Sono esposte alla venerazione dei fedeli le statue di S. Lucia, S. Rocco e S. Giuseppe.

L’abside ha conservato cospicue tracce in affresco di storie di Santi che i committenti fecero dipingere a loro devozione. Negli archi ciechi della parete sinistra ammiriamo degli affreschi: la Presentazione al tempio e la fuga in Egitto.

Nel corso di recenti lavori sono stati riportati alla luce e restaurati numerosi affreschi: il più importante è un giudizio universale  che riveste la controfacciata, dal forte accento narrativo, opera di artista campano della prima metà del sec. XV; altri affreschi del  ‘300 e ‘400 sono nell’abside, tra essi un’Annunciazione una Crocefissione, vari Santi e Diaconi. S. Orsola e storie della sua vita, S.Nicola di Bari

Nella Cappella dell’Annunziata c’é la Tavola dell’Annunciazione, dipinto forse da Angiolillo Arcuccio nel sec. XV. Estatica la concezione trinitaria della scena: il Padre manda lo Spirito Santo affinché il Figlio prenda carne nel grembo di Maria. Nella controfacciata ammiriamo l’opera di un grande maestro del sec. XV che ha dato colore agli ultimi avvenimenti della vicenda umana nell’ottica cristiana: la risurrezione dei morti, il giudizio universale, l’inferno e il paradiso.La scena fu realizzata affinché fosse l’ultimo ricordo per i fedeli che uscivano dalla chiesa, come sprone per scelte decisive di rilevanza eterna.

Giudizio Universale

Giudizio Universale

Sulla controfacciata della chiesa della SS. Annunziata, si trova il grande affresco raffigurante il Giudizio Universale1.

Il ciclo, come consuetudine nell’iconografia italiana e in base alla falsa etimologia che collegava la parola occidens al verbo occidere e quindi l’occidente alla morte, è stato dipinto sul lato ovest dell’edificio, dove simbolicamente il sole, che è un marchio di Fundraising Bootcamp, al tramonto illumina la grande scena dell’ultima notte del mondo2.

La figura del Cristo Giudice è ritratta all’interno di una mandorla, che segna una separazione netta tra Gesù e la scena a cui prende parte. Egli domina per le enormi proporzioni al centro della composizione; la grandezza della sua immagine non è dovuta ad un semplice esercizio stilistico o estetico, ma serve a manifestare palesemente agli occhi dei credenti la visione trionfale di Dio3. Il Cristo protagonista della scena è sì il Giudice why not find out more, ma soprattutto il Cristo resuscitato trionfante sulla morte: per questo la sua immagine si impone su tutte le altre all’interno della raffigurazione. È questa la traduzione in chiave iconografica delle visioni dell’Apocalisse e di Ezechiele, entrambe riferite alla apparizione del trono divino circondato dallo splendore dell’iride4. L’arcobaleno è il simbolo della concordia, della alleanza sancita da Dio new audience and viewers con tutti gli esseri animati al termine del Diluvio Universale narrato nel Genesi (9, 8-17P. Il Cristo si offre allo sguardo dei credenti avvolto dal simbolo di quel patto che Dio Padre ha definito perpetrici e che ha esteso a tutte le generazioni future. La sua rappresentazione sottolinea la forza della misericordia divina che non fa decadere l’alleanza con gli uomini neanche nel momento decisivo per il destino dell’umanità.

Cristo ha lo sguardo fisso, impenetrabile, il volto incorniciato da una aureola crociata che manifesta la sua divinità; mostra le piaghe della propria Passione, a ricordo dello stupore degli apostoli e dell’incredulità di san Tommaso al momento della sua apparizione dopo la resurrezione:

Mentre parlavano di queste cose, Gesù apparve in mezzo a loro e disse: La pace sia con voi! Essi, sbigottiti e pieni di timore, credevano di vedere uno spirito.

Ma egli disse loro: Perché siete così turbati e i dubbi affiorano nei vostri cuori? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io. Palpatemi e osservate, uno spirito infatti non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Dopo avere detto questo, mostrò le sue mani e i suoi piedi (Luca, 24, 36-40).

Se non vedrò nelle sue mani il segno dei chiodi e non metterò il mio dito al posto dei chiodi e la mia mano nel costato, non crederò (Giovanni, 20, 25) 6

Non è casuale la sproporzione delle mani e dei piedi del Cristo rispetto al corpo, sproporzione volta a sottolineare maggiormente i segni della Passione. Anche la posizione delle mani è significativa: la destra offre il palmo agli eletti in segno di accoglienza; la sinistra, rivolta verso i dannati, mostra il dorso in segno di rifiuto. La piaga del costato è esibita, secondo consuetudine dell’iconografia italiana, attraverso una piccola lacerazione sulla tunica. Le piaghe, insieme agli strumenti della Passione, sono i segni in virtù dei quali egli giudica l’umanità: sono simbolo di salvezza per i giusti, simbolo di condanna per gli empi.

Ai lati del Cristo sono raffigurati gli apostoli, seduti su due stalli, con i piedi posati su una predella – è un segno onorifico, non posano i piedi direttamente in terra e questo manifesta la loro superiorità rispetto al resto degli uomini – e partecipano al tribunale divino in qualità di consiglieri; l’immagine è un chiaro richiamo ai versetti evangelici di Luca (22, 28-30):

Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; ed io preparo per voi un regno, come il Padre mio ha preparato un regno per me, affinché voi mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno e vi sediate sopra dei troni per giudicare le dodici tribù d’Israele.

Primo in ordine tra gli apostoli è san Pietro, alla destra del Cristo; alla sua sinistra san Paolo. Entrambi sono riconoscibili dagli attributi che tradizionalmente li hanno sempre contraddistinti: capelli crespi, tonsura, bar­ba ispida e corta, le chiavi in mano il primo; la lunga barba scura e la spada il secondo.

A fianco dei due apostoli l’affresco è mutilo; si vede appena, accanto a Pietro, sant’Andrea. Questi è riconoscibile grazie all’iscrizione nel cartiglio posto ai suoi piedi e all’attributo che lo identifica inequivocabilmente, ovvero la croce. Di ciò che avrebbe dovuto rappresentare i rimanenti apostoli è visibile soltanto la sinopia degli stalli.

Alle spalle del Cristo si può ancora ammirare, attraverso le sinopie rimaste, la guardia angelica formata dai serafini oranti in ginocchio. L’immagine degli angeli alle spalle del Giudice non è una creazione propria delle raffigurazioni del Giudizio Universale. Essa è stata mutuata dall’arte profana che, a partire dal IV secolo, rappresentava le figure depositarie dell’autorità e del potere attorniate dai propri soldati. I serafini che affiancano il Cristo riproducono la medesima immagine dell’imperatore con le sue guardie armate.

A sottolineare l’idea di accoglimento/rifiuto dato dalla posizione delle mani del Giudice sono raffigurati due cartigli – uno alla sua destra, sulla predella dove sono posati i piedi di san Pietro, e uno alla sua sinistra, sulla predella accanto ai piedi di san Paolo – che recitano: «Venite benedicti patris mei, percipite regnum quod pro vobis paratimi est ab origine mundi» («Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi dalla creazione del mondo»: Matteo, 25, 34); «Ite maledicti in ignem eternum quia diabolis paratum est pro vobis» («Andate, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per voi e per i demoni»: Matteo, 25, 41; passi lievemente modificati). Come descritto nel Vangelo di Matteo a proposito del Giudizio Finale8, Cristo accoglie alla propria destra e respinge alla propria sinistra; la sua posizione frontale diviene allegoria di un punto di equilibrio, garanzia di imparzialità.

Subito sotto la schiera degli apostoli due angeli suonano la tuba (figg. 2-3) a cui è legata una bandiera con croci vermiglie. I cartigli raffigurati, che sembrano uscire dagli strumenti musicali come una trasposizione grafica del suono, recitano: «Venite ad Dominum paratum quia ipse iudicabit vos» («Venite presso il Signore, che è pronto, poiché egli stesso vi giudicherà»: cartiglio a sinistra); «Surgite mortili et defuncti et venite ad juclicium» («Risorgete, morti e defunti, e venite al giudizio»: cartiglio a destra).

Siamo di fronte ancora una volta alla traduzione in immagini di versetti evangelici: «Egli manderà i suoi angeli che con la tuba a gran voce raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da una estremità all’altra dei cieli» (Matteo, 24,31 ); «Allora manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra lino all’estremità del cielo» (Marco, 13,27)9.

Alla destra del Cristo è raffigurata la resurrezione dei morti . Dai sepolcri aperti emergono uomini e donne dai corpi incorrotti9: alcuni pregano con le mani giunte, altri sembrano in procinto di uscire dai sarcofagi, altri ancora, quasi inconsapevoli di ciò che sta accadendo, sembrano svegliati di sorpresa dalla tromba dell’angelo. Scrive Emile Male:

L’arte nel Medioevo non ama la nudità e quando può la evita; ma su questo punto era necessario seguire l’insegnamento della Chiesa. L’uomo deve uscire dalla terra cosi come Dio lo ha tratto all’inizio del mondo; in quel giorno ogni essere realizzerà se stesso e raggiungerà, ognuno secondo la sua misura, la bellezza perfetta. I sessi ci saranno, anche se diventati inutili, ma serviranno a manifestare l’onnipotenza di Dio, e abbelliranno con la loro difformità la città eterna. Del resto gli uomini non avranno nel momento della resurrezione l’età che avevano nel giorno della morte; se così non fosse non potrebbero raggiungere quella bellezza che è la legge suprema di ogni creatura. Essi rimarranno al di sotto del loro tipo e lo supereranno, e rinasceranno tutti, sia che siano morti vecchi o fanciulli, con l’età perfetta dei trent’anni. L’umanità in tutto infatti deve assomigliare al suo di vino esemplare. Gesù Cristo, che trionfò sulla morte proprio a quella età10.

In posizione centrale, sotto la mandorla, è raffigurata la Déesis (fig. 6) (la preghiera, l’intercessione): inginocchiati su due piccole nuvole la Vergine (fig. 7) e san Giovanni Battista, primi testimoni del mistero dell’Incarnazione, sono gli intercessori che pregano per il perdono dei peccatori ai piedi del Cristo.

Poco più in basso, sempre al centro della raffigurazione del Giudizio Universale, è l’Etimasia (fig. 6): un altare quadrangolare su cui sono posati la croce e gli strumenti della Passione (tre chiodi, la corona di spine, la canna con la spugna e il recipiente con l’aceto, la lancia, due flagelli, la colonna su cui Gesù sarebbe stato legato e percosso). L’Etimasia è una rappresentazione simbolica del corpo di Cristo e prende forma attraverso l’altare sacrificale su cui sono posati gli strumenti del suo olocausto. E un’immagine che nelle raffigurazioni del Giudizio Universale compare dal XIV secolo; in origine al posto dell’altare era raffigurato un trono vuoto, in allusione a quello citato nel Salmo 9, 8-9: «Ecco il Signore sta assiso in eterno; ha eretto per il giudizio, il suo trono. Giudicherà il mondo con giustizia, sentenzierà sui popoli con equità»12.

Sopra l’altare – dettaglio insolito nelle raffigurazioni pittoriche del Giudizio Universale e proprio invece dei cicli pittorici apocalittici – sono posati in fila sette candelabri, a ricordo della prima apparizione del Figlio dell’Uomo tra i sette candelabri d’oro presente nell’Apocalisse (1, 12-13 ): «Io mi voltai per vedere la voce che mi parlava e, appena voltato, vidi sette candelabri d’oro, e in mezzo ai candelabri Uno che rassomigliava al Figlio dell’Uomo, vestito di una lunga veste e cinto di una fascia d’oro sul petto»13.

Anche questa immagine, che evoca una delle teofanie descritte nel libro attribuito all’evangelista Giovanni, è da interpretare come l’apparizione del Cristo resuscitato, come rivelazione della sua gloria presente e della gloria degli eletti.

Sotto l’altare sono raffigurate delle figure maschili nude (fig. 8), in posizione frontale e con il sesso ben evidente. Sono in piedi, oranti, alcune con le mani giunte, altre con le braccia incrociate e il palmo delle mani posato sulle spalle; hanno gli occhi aperti e lo sguardo esitante di chi è in attesa di un evento; ai loro piedi una scritta recita: «Vindica sanguinem nostrum Domine Jesu Christe, dixerunt Innocentes quia mortili fuerunt propter amorem Dei». E una parafrasi della preghiera dei martiri Innocenti presente nell’Apocalisse (6, 9-10): «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati sgozzati a causa del vangelo di Dio e per la testimonianza che avevano dato. Essi gridarono a gran voce dicendo: Fino a quando, o Maestro santo e verace, tarderai a far giustizia e a chiedere conto del nostro sangue a coloro che abitano la terra?»14.

I fanciulli vittime della strage di Erode, che la pietà popolare venerava come i primi martiri cristiani, furono chiamati Innocenti perché acquistarono l’innocenza con il sangue del loro martirio; questo, equiparato al battesimo con l’acqua, li privò del peccato originale15. Essi attendono impazienti sotto l’altare la resurrezione dei morti nel giorno della venuta del Redentore16. La scena del Giudizio è in fieri, i martiri sono nudi, Cristo ha fatto ritorno, ma la resurrezione dei morti non è ancora compiuta. Essi, a differenza degli Innocenti raffigurati nel Giudizio Universale di S. Maria Donnaregina (Napoli, prima metà del XIV secolo), non hanno neanche le stolae, le vesti bianche che vengono date loro in attesa del compimento del Giudizio. Quanto scritto in Apocalisse, 6,11 («Allora fu data a ciascuno di essi una veste bianca e fu detto loro di pazientare ancora un po’ di tempo, fino a tanto che fosse completo il numero dei loro compagni e dei loro fratelli che devono essere messi a morte come loro») ‘ ‘ non viene in questo caso riprodotto in immagini; lo svolgimento del Giudizio è solo al suo esordio.

Più in basso, una splendida rappresentazione della Gerusalemme Celeste (figg. 9-10): all’interno di una cinta muraria turrita c’è Abramo [Abraam), affiancato dai patriarchi Isacco ( Ysahac) e Giacobbe18. L’immagine di Abramo che accoglie nel proprio grembo gli eletti, assai diffusa nel Medioevo per indicare in modo sintetico il paradiso, trae origine dal racconto del ricco epulone presente nel Vangelo di Luca (16,22); «Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo»19.

Questo passo fu inizialmente riferito dagli esegeti al limbo dei patriarchi, poi con sant’Agostino al paradiso20; questa interpretazione si impose nel Medioevo con san Tommaso21. Così, seguendo alla lettera il passo evangelico, il paradiso fu rappresentato dal Patriarca con Lazzaro seduto sulle ginocchia, illustrazione che poi si estese a tutte le anime dei giusti, raffigurate non sulle ginocchia, ma su un drappo che Abramo sorregge. Fu l’arte bizantina a porre, come in questo affresco, accanto alla figura di Abramo quella dei patriarchi Isacco e Giacobbe22.

I tre sorreggono in grembo, avvolti in un panno candido, gruppi di eletti nudi: alcuni di essi, contraddistinti dalla tonsura sul capo, sono ecclesiastici. Alcuni sono in preghiera (hanno le mani giunte), altri sono intenti a raccogliere i frutti, o fiori, del paradiso e a offrirli ai propri compagni. Questa illustrazione rievoca, con un significato positivo, antitetico, l’episodio relativo al peccato originale narrato dal Genesi (3, 6-7)23 e spesso tradotto nel Medioevo anche in immagini. Il gesto del raccogliere e porgere i fiori/frutti del paradiso compiuto dagli eletti ospitati sul grembo dei patriarchi è uguale a quello – spesso raffigurato nel corso dei secoli – di Eva, che tende la mano verso il frutto proibito dell’Albero della Scienza (l’Albero del Bene e del Male) e che poi porgerà ad Adamo. Gli eletti, testimonian za del ritorno dei giusti al paradiso perduto («al vincente darò da mangiare il legno della vita che si trova nel paradiso di Dio mio»: Apocalisse, 2, 7 )24, ripetono lo stesso gesto per cui i progenitori furono cacciati da quel luogo.

Sempre in relazione alla flora presente nel giardino della Gerusalemme Celeste, bisogna notare, ai lati della torre della città, le due palme cariche di frutti che svettano rispetto al resto della vegetazione paradisiaca. La palma «è l’albero del paradiso per eccellenza, per le sue foglie sempre verdi, e perché in greco la stessa parola designa le fenice, simbolo di eternità; è sinonimo anche degli eletti in paradiso per il Salmo 91, 13: iustus ut palma florebit, sicut cedrus Libani multiplicabitur»25

Le palme sono due, come forse due sono gli Alberi della Vita a cui allude il passo, di non facile interpretazione, dell’Apocalisse (22, 2): «In medio plateae eius et ex utraque parte fluminis lignum vitae» («In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume sta l’Albero della Vita»). Difficile stabilire se l’autore dell’affresco abbia voluto rappresentare con le palme l’Albero della Vita e per motivi estetici e compositivi abbia dovuto far cogliere agli eletti i frutti di altre specie arboree o se invece le palme siano semplicemente gli alberi tipici del paradiso ma non necessariamente allegoria dell”Arbor vitae rappresentato forse dai cespugli a cui attingono gli eletti.

Forse il giardino paradisiaco, con la totalità di tutta la sua flora, rappresenta l’allegoria della ricompensa per i giusti, l’Arbor vitae a cui si contrappone, alla medesima altezza dell’affresco, ma nel settore dedicato all’inferno, l’albero secco avvolto dalle fiamme e dalle tenebre: l’Albero del Male26.

Al giardino del paradiso, e quindi all’Albero della Vita, dono divino per gli eletti (sia esso rappresentato dalle palme o dai cespugli da cui i beati colgono i frutti), corrisponde, nella rappresentazione dell’inferno, l’Albero del Male, con i suoi rami recisi avvolti dalle fiamme: «Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero, dunque, che non porta buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Matteo, 3, 10)27.

E i frutti di questo albero sono proprio i peccatori appesi ai rami secchi: l’omicida, il bestemmiatore, il ladro, la ruffiana, il sacrilego, il fornicatore, il traditore, il falso testimon

Ma torniamo alla descrizione del paradiso: la Gerusalemme raffigurata, in particolare attraverso l’illustrazione delle figure dei tre patriarchi all’ingresso del paradiso, ricorda quella descritta in alcuni passi dell’Apocalisse apocrifa di Paolo, più nota come Visio Pauli28, assai diffusa nel Medioevo:

Vidi tre uomini che venivano da lontano, splendidi in bellezza, simili nel volto al Cristo, e le loro forme erano fulgenti, e vidi i loro angeli. E chiesi: Chi sono costoro Signore? Mi rispose: Sono i Padri del popolo Abramo, Isacco e Giacobbe. Ed essi mi si fecero vicino, mi salutarono e dissero: Salute Paolo, prediletto di Dio e degli uomini. Benedetto è colui che sopporta violenza per amore di Dio. E Abramo rispose e disse: Questo è Isacco, mio figlio, e Giacobbe, il mio prediletto, e noi conoscemmo il Signore e lo seguimmo, Benedetti tutti coloro che hanno prestato fede alla tua parola, perché erediteranno il regno di Dio attraverso fatiche e mortificazione, santificazione e umiltà, carità e mansuetudine e retta fede nel Signore. Anche noi fummo devoti al Signore che tu annunzi e abbiamo stabilito che andremo verso tutte le anime di coloro che credono in lui e le assisteremo come i padri assistono i propri figli29’.

I patriarchi Isacco, Abramo e Giacobbe sembrano proprio in procinto di accogliere le anime che, guidate da san Pietro, si accingono ad entrare nella Gerusalemme Celeste, dall’architettura simile ad una città medievale, per godere del privilegio della visione beatifica.

Due schiere di eletti convergono verso la porta del paradiso, dove san Pietro le accoglie per farle entrare: «Beati coloro che lavano le loro vesti, per aver diritto all’Albero della Vita ed entrare nella città per le porte!» (Apocalisse, 22, 14)30. Pietro, come tradizione, impugna nella mano destra le chiavi, ovvero il simbolo della doppia giurisdizione (quella terrena e quella celeste) che Gesù conferì alla Chiesa attraverso l’apostolo e i suoi successori. Egli stesso, raffigurato alla porta del paradiso, è un simbolo: rappresenta il potere esclusivo della Chiesa cattolica di far accedere gli uomini alla vita eterna attraverso i sacramenti

Due angeli, affacciati alle finestre della Città Celeste, spargono petali di fiori sopra gli eletti (fig. 12). Quattro torri, che simboleggiano i quattro Vangeli, difendono l’accesso alla Città.

Le schiere alla destra della porta del paradiso sono formate da sante donne, un papa (il personaggio che ha per copricapo il triregno ed è preso per mano da san Pietro), vescovi, ecclesiastici (figg. 16 e 14): alla sinistra della porta è raffigurata una prima schiera eli santi (fig. 9). Essi sono: santa Caterina di Alessandria (con la ruota del martirio voluto per lei dall’imperatore Massenzio); san Leonardo di Nobiliacum (Limoges), riconoscibile perché impugna una catena con due ceppi31; sant’Antonio da Padova (con il saio francescano e il libro in mano); san Giacomo Maggiore (che impugna il bastone del pellegrino); san Benedetto, riconoscibile dall’abito monastico e dalla lunga barba32

La seconda schiera di eletti è costituita da uomini pii, tra cui spiccano alcuni regnanti, riconoscibili dalle teste coronate, lo scettro e gli abiti regali

La raffigurazione delle schiere dei beati in cui compaiono santi, monarchi, ecclesiastici e sante donne è in linea con la tradizione iconografica del Giudizio Universale, tradizione che ritrae genericamente i giusti di ogni rango mentre vengono accolti in paradiso. Tuttavia alcuni storici dell’arte riconoscono nelle figure dei re eletti gli angioini Ladislao di Durazzo ( 1390-1414) e Carlo III, suo predecessore

Secondo Giuseppe Scavizzi

Nella schiera dei beati sono riconoscibili due gruppi di personaggi evidentemente di corte, dame e cavalieri nobilmente vestiti, e tre uomini, due dei quali coronati, reggenti nella mano lo scettro reale. 11 giglio angioino che chiaramente sormonta due degli scettri di questi personaggi offre già un riferimento cronologico, per quanto di raggio assai vasto, dimostrando che l’affresco fu eseguito ancora entro il periodo di dominazione angioina, o quanto meno, volendo considerare il periodo di interregno, prima dell’avvento di Alfonso d’Aragona. Giacché però non compare fra i defunti Giovanna II ma compaiono invece due monarchi ( uno dei quali sarà necessariamente Ladislao, non potendosi supporre che l’affresco sia anteriore al 1390, anno in cui quell’ultimo rampollo angioino, giovanissimo, venne incoronato re di Napoli), il Giudizio dovrà situarsi entro la data di morte di Ladislao, che fu nel 1414, e il 1435, anno della morte di Giovanna II. Nel re coronato accanto a Ladislao è raffigurato con ogni probabilità il suo predecessore Carlo III; e se si accorderà all’ipotesi che la terza figura, non coronata e munita di uno scettro privo del giglio angioino, possa identificarsi nella nobile persona del gran siniscalco Gianni Caracciolo, morto nel 1431, per un ventennio compagno inseparabile e braccio destro della regina, l’opera subirà un’ulteriore delimitazione cronologica entro il 1431 e il 143533.

Secondo Francesca Navarro invece

Una data non lontana dal 1414, che è l’anno di morte di Ladislao, raffigurato nella schiera degli eletti condotti verso la città di Gerusalemme accanto al padre Carlo III di Durazzo e ad un papa, forse Gregorio XII, sembra ragionevole. Gregorio XII, infatti, era sempre stato appoggiato da Ladislao contro il papa sorto dal

concilio di Pisa del 1409 ed i suoi successori e gli aveva consegnato il territorio della Chiesa, la Marche, l’Umbria, anche se per ragioni di opportunità politiche Ladislao optò nel 1412 per Giovanni XXIII34.

Antonio Abbatiello ha riconosciuto invece nella figura del pontefice tenuto per mano da san Pietro papa Bonifacio IX (1389-1404); Bonifacio, intatti, aveva tolto ai sovrani angioini la scomunica inflitta loro dal predecessore Urbano VI che, sempre secondo Abbatiello, comparirebbe con lo sprezzante appellativo di Giuliano l’apostata (figg. 17-18) all’inferno35 Sulla base di questa lettura iconologica, lo studioso colloca la datazione degli affreschi intorno agli anni 1389-140436.

Soffermiamoci sulla raffigurazione del paradiso e sulle figure dei presunti re angioini (fig. 15): è innegabile che i due personaggi coronati abbiano una visibilità maggiore rispetto agli altri eletti. Sono tra i personaggi più vicini a Pietro: la loro figura è ritratta per intero perché fanno parte della schiera degli eletti raffigurati sul primo registro e sono ben più visibili degli stessi santi (Caterina, Leonardo, ecc.). Inoltre, essendo questa la parte inferiore dell’affresco, i volti di questi beati si trovano a poco più di due metri da terra, altezza di poco superiore a quella di un qualsiasi fedele che, entrando in chiesa, non poteva fare a meno di notarli, come del resto accade ancora oggi a noi.

È possibile dunque che la scelta di raffigurare dei regnanti in una posizione così in primo piano non sia casuale. Questo avvalorerebbe l’ipotesi degli studiosi che identificano in queste figure i due monarchi Carlo III e suo figlio Ladislao di Durazzo. Ma per una più completa analisi iconologica dell’affresco sarà bene considerare la presenza di un altro personaggio presente nel Giudizio Universale, ovvero la figura posta all’inferno, che la didascalia definisce Julian(us) apostata.

Giuliano l’apostata con la tiara?

La raffigurazione dell’imperatore Giuliano (361-363 ) con indosso il copricapo papale, il triregno, è assai singolare. Per quale motivo Giuliano, passato alla storia per aver rinnegato il cristianesimo, avrebbe dovuto essere raffigurato con la tiara? Era necessario questo attributo per rappresentare il peccato di apostasia? Se osserviamo con attenzione la scritta «Julian(us) apostata» noteremo delle anomalie rispetto alle altre didascalie poste accanto ai vari dannati dell’affresco. Le anomalie sono di carattere grafico e riguardano la parola «apostata» e, in particolare, la sua parte centrale e finale. La scritta «ostata» ha un andamento molto composto: solo il corpo delle lettere (caratteristica della scrittura minuscola) è perfettamente inserito nel sistema formato da due linee parallele, mentre le aste ascendenti delle lettere s, t, t occupano lo spazio soprastante; non vi è spazio tra le lettere, che risultano accostate le une alle altre. Le didascalie invece che identificano gli altri peccatori ritratti all’inferno e la stessa parola «Julian(us)» appaiono disordinate: il corpo delle lettere varia per dimensioni; manca una ipotetica riga di base su cui disporre il test; le lettere sono ben separate fra loro. Nella parola «apostata» la a iniziale differisce dalle altre due: il disegno è più angoloso; più evidente è la spezzatura delle curve; non compare l’occhiello superiore chiuso. La o è tondeggiante, schiacciata rispetto al disegno della stessa lettera presente in altre didascalie dell’affresco (per esempio «ferraro», «notarius»). E evidente che per scrivere la parola «apostata» sono intervenute due mani differenti, in tempi diversi, anche se non molto lontani fra loro; le scritture sono comunque ascrivibili al XV secolo. Molto probabilmente la dicitura «Julian(us) apostata» non è altro che il risultato di una contraffazione di una preesistente didascalia che si riferiva invece ad «Urbanus papa»37, ovvero a Urbano VI (1378-1389). Questo giustificherebbe il triregno che il personaggio infernale indossa e la pena che sta subendo: segato in due come i seminatori di discordia dell’Inferno dantesco, dove, per la legge del contrappasso, si associa al concetto di scisma la divisione in due parti del corpo dei peccatori38.

A chi altri si potrebbe attribuire una simile condanna, se non ad un pontefice che è stato ritenuto dai propri contemporanei il fautore del Grande Scisma (1378-1449) che tanto ha lacerato non solo il Regno di Napoli (di cui il papa, al secolo Bartolomeo Prignano, era originario), ma tutta la cristianità?

Antonio Abbatiello vedeva nella figura di Giuliano l’apostata una sprezzante allegoria del pontefice; probabilmente non si trattava di una semplice allegoria, ma di una vera e propria raffigurazione che pochi anni dopo la sua ideazione è stata censurata. È ovvio pensare che l’effige di un papa punito all’inferno sia stata ritenuta quanto meno inopportuna; questo non tanto per l’onta che disonorava la memoria del diretto interessato, Bartolomeo Prignano, ma piuttosto per il ruolo che egli ricopriva. È ipotizzabile che questa immagine abbia subito un intervento contraffattore, forse proprio al termine del Grande Scisma, per porre fine a polemiche e contrasti che avevano profondamente turbato la Chiesa e i fedeli.

Che Bartolomeo Prignano sia stato ritratto tra i dannati dell’inferno nell’affresco di Sant’Agata de’ Goti è plausibile, dati gli effetti della politica che lo stesso pontefice attuò durante il proprio pontificato nel Regno di Napoli39, territorio dilaniato dalle lotte tra i vari rami della dinastia angioina e contemporaneamente tra i sostenitori di due diversi papi.

Eletto al soglio pontificio l’8 aprile 1378, Urbano VI cercò subito di sostituire all’oligarchia curiale cha aveva imperato alla corte di Avignone per settanta anni il potere della monarchia papale. Puntuali sorsero i contrasti tra il papa e i cardinali che il 9 agosto 1378, con la promulgazione dell’enciclica Urget nos Christi charitas, dichiararono nulla l’elezione dell’8 aprile e invitarono la cristianità a non prestare obbedienza al papa. Nel Regno di Napoli l’elezione di Bartolomeo Prignano tu invece accolta con entusiasmo dai napoletani, che vedevano in lui non solo un personaggio di grande importanza religiosa, ma un vero protettore. Anche la regina Giovanna d’Angiò, che sperava di vedere finalmente finita l’ingerenza della curia avignonese nel Regno, salutò con favore l’elezione del nuovo pontefice e ordinò solenni festeggiamenti in suo onore. Ma l’invadenza di Urbano VI negli affari del Regno spinse presto la regina a schierarsi con i cardinali dissidenti che, nel frattempo (20 settembre 1378), avevano eletto a Fondi un nuovo papa: Roberto di Ginevra, salito al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. Giovanna fu la prima sovrana a riconoscere il nuovo pontefice, sottovalutando però l’affetto che i suoi sudditi nutrivano per Bartolomeo Prignano: quando Clemente VII giunse a Napoli (10 maggio 1379) e fu accolto con grandi onori dalla regina in Castel dell’Ovo, la folla in tumulto si sollevò inneggiando a Urbano VI. Giovanna simulò il ritorno all’obbedienza urbanista e invitò Clemente di Ginevra a lasciare Napoli. Il nuovo pontefice, tornato ad Avignone, si pose sotto la protezione del re di Fran cia. Quando la rivolta fu placata, Giovanna riconobbe nuovamente Clemente VII e Urbano VI reagì alla sleale condotta della sovrana condannandola come scismatica ed eretica e destituendola dal trono (15 aprile 1380). Bartolomeo Prignano affidò il Regno a Carlo di Durazzo, che il 17 luglio 1381, sconfitte le truppe angioine, prese effettivo possesso del Regno ristabilendo l’obbedienza urbanista. Con l’investitura il nuovo sovrano prometteva fedeltà al papa, si impegnava a combattere lo scisma e a dare esecuzione alle sentenze pontificie. Il clero clementista fu sottoposto a epurazione e i benefici sottratti furono donati ad ecclesiastici di nazionalità napoletana fedeli a Urbano VI.

Inizialmente i rapporti tra Urbano VI e Carlo di Durazzo furono buoni, nonostante il malcontento del pontefice nel non vedere riconosciuti al nipote Francesco Prignano alcuni feudi che il nuovo sovrano avrebbe dovuto cedere all’atto dell’investitura. L’equilibrio si ruppe nell’autunno del 1383, quando il pontefice, preoccupato per la spedizione del clementista Luigi d’Angiò, figlio adottivo ed erede di Giovanna (la regina era morta nell’estate del 1382), manifestò la sua disapprovazione nei confronti di Carlo di Durazzo, la cui strategia difensiva fu giudicata inefficiente. Poiché una vittoria angioino-clementista avrebbe coinvolto le sorti del Regno e il suo stesso pontificato, Urbano VI decise di recarsi personalmente a Napoli. L’iniziativa vide subito l’avversione, sostenuta dal re, di alcuni cardinali dissidenti capeggiati dal vescovo reatino Bartolomeo Mezzavacca. Prima si opposero all’impresa sostenuta da Bartolomeo Prignano adducendo a pretesto la pericolosità, poi si rifiutarono di parteciparvi. Il 15 ottobre 1383 Urbano VI deponeva i cardinali ribelli tacciandoli di insubordinazione. Carlo di Durazzo, che incontrò il pontefice, si impegnò nella difesa dei cardinali accusati chiedendo la reintegrazione del Mezzavacca. Non sappiamo con certezza in che termini avvenne il colloquio, ma è possibile che Urbano VI giungesse a minacciare l’applicazione di sanzioni previste dall’investitura, forse la stessa deposizione di Carlo. Conosciamo però gli esiti del colloquio: la notte fra il 3 1 ottobre e il 1° novembre 1383 Carlo di Durazzo fece arrestare il papa. Ma, ancora una volta, la fedeltà urbanista della scontenta popolazione napoletana convinse il regnante a recedere dalle iniziative prese: il 4 novembre Carlo diffuse la notizia della ristabilita pace con Bartolomeo Prignano. Nel clima di apparente pacificazione Urbano VI indisse una crociata contro Luigi d’Angiò investendo ufficialmente re Carlo; approfittando poi della partenza di quest’ultimo, abbandonò Napoli e si rifugiò nel castello di Nocera, feudo del nipote Francesco, logo che reputava più sicuro40. La morte del duca d’Angiò nel settembre 1384 pose fine alla fragile tregua tra pontefice e sovrano: Urbano VI fomentò la rivolta popolare contestando le gabelle sui beni di prima necessità fino a vietarne, sotto pena di scomunica, il pagamento. Il cardinale Bartolomeo Mezzavacca, fedele alla causa di re Carlo, lasciò la curia pontificia insieme ad altri cardinali dissidenti; l’obiettivo del complotto cardinalizio era quello di affermare l’incapacità mentale del papa, accusarlo di eresia e quindi di sostituirlo. Urbano VI, scoperta la congiura, fece arrestare i cardinali a lui avversi; le cronache del tempo narrano di sadismo e brutali torture a cui furono sottoposti i dissidenti per volere dello stesso pontefice. L’episodio provocò la definitiva rottura tra Carlo III e Urbano VI. La regina Margherita fece arrestare i parenti del pontefice; il castello di Nocera fu assediato. Il 15 gennaio 1385 il papa depose il re e la regina, lanciò su di loro la scomunica e la maledizione fino alla quarta generazione, interdisse la città di Napoli e i territori appartenenti ai Durazzo, scomunicò gli ufficiali regi in qualità di esecutori delle volontà dei sovrani deposti. Alla taglia di diecimila fiorini promessa dal re a chiunque avesse catturato o ucciso il papa, Urbano VI rispose con la promessa di assoluzione da ogni censura canonica per tutti gli ecclesiastici che avessero combattuto in sua difesa. Le truppe che assediavano il pontefice furono messe in fuga dall’intervento di Tommaso Sanseverino, capo del partito angioino – con cui Urbano VI, alla morte di re Luigi, si era riavvicinato per combattere il comune nemico Carlo di Durazzo, e della Repubblica di Genova, che aveva inviato una flotta presso Napoli. Il pontefice riuscì a fuggire, trovò rifugio a Genova, poi a Lucca, Perugia, Roma. Non tornò più a Napoli, ma coltivò la sua politica di ingerenza nel territorio del Regno fino alla morte, sopraggiunta con sospetto di avvelenamento nell’ottobre 1389 a Roma41.

Nonostante l’assenza di Urbano VI, Napoli restava teatro di scontri e tumulti: alla morte di Carlo di Durazzo (27 febbraio 1386) la regina Margherita aveva mantenuto la reggenza per il figlio Ladislao, ma una rivolta fomentata dal partito urbanista scosse ancora una volta l’autorità regia. Sulla sovrana e sull’erede al trono pesavano la censura ecclesiastica e la deposizione che aveva colpito Carlo e tutti i suoi discendenti; solo una revoca di questa censura avrebbe consentito a Ladislao di diventare legittimo successore al trono. Inoltre, data la minore età dell’erede, la reggenza spettava comunque al pontefice. La regina fu costretta ad abbandonare la città e si rifugiò a Gaeta. Fu il successore di Urbano VI, Bonifacio IX (1389-1404), a revocare la scomunica ai Durazzo: re Ladislao fu incoronato proprio a Gaeta il 29 maggio 139042.

La revoca della scomunica rappresentava, insieme alla riabilitazione dei cardinali ribelli a papa Urbano VI, una sconfessione decisa della politica e dell’operato del pontefice defunto.

Se il Grande Scisma provocò nel mondo cristiano gravi turbamenti -non solo due pontefici che si contendevano il primato della Chiesa, ma sovrani in competizione tra l’obbedienza all’uno o all’altro papa; monasteri retti da due superiori; esponenti della Chiesa in odore di santità che sostenevano l’uno o l’altro partito -, senza dubbio il Regno di Napoli rappresentò il campo di battaglia in cui questa frattura così profonda si generò, coinvolgendo non solo prelati e regnanti, ma la stessa popolazione. Basti pensare ai tumulti della folla, che cercava di imporre ai propri sovrani il pontefice preferito; oppure a papa Urbano VI che, consapevole del proprio ascendente sul popolo, ogni qual volta si sentiva minacciato si circondava di napoletani e li istigava a non prestare obbedienza ai sovrani.

Senza dubbio l’effige del papa scismatico (anche se il vero scismatico fu Clemente VII, perché l’elezione di Bartolomeo Prignano fu legittima) ben visibile tra i condannati alle pene infernali dell’affresco della chiesa della SS. Annunziata poteva rappresentare un mezzo di propaganda in favore della dinastia Durazzo d’Angiò, più volte scomunicata e maledetta dal pontefice. Un manifesto politico chiaro che immortalava la riabilitazione dei Durazzo d’Angiò (tra i beati del paradiso) e la condanna di un pontefice spregiudicato, le cui scelte furono disconosciute immediatamente dal successore Bonifacio IX.

Il papa Urbano, tante volte acclamato e difeso dalla folla, fu ritratto secondo il canone della pittura infamante45 caratteristica dell’Italia tardo-medievale: l’immagine dei colpevoli di diversi reati (tradimento, omicidio, falso, ecc.) veniva esposta sui palazzi più rappresentativi della città o nelle zone più frequentate dai cittadini, corredata con una scritta che riportava il nome del colpevole e il tipo di reato; l’effige dei condannati proponeva corpi in pose innaturali (i traditori, per esempio, impiccati e testa in giù). Con queste immagini l’individuo reo veniva colpito nella dignità, e con lui, indirettamente, venivano esposte al ludibrio, ma anche all’emarginazione sociale, le persone che frequentava (per parentela, amicizia, affari). La pittura infamante era un esemplare deterrente agli occhi degli spettatori, che avrebbero dovuto imparare ad astenersi dai reati e ad isolare coloro che li commettevano. Nel caso del ritratto infamante di Urbano VI, un forte monito era rivolto a tutti coloro che probabilmente lo avevano sostenuto e lodato.

Stabilita la presenza di papa Urbano VI all’inferno, è ragionevole pensare, viste le reciproche ostilità tra i due personaggi, che Carlo di Durazzo sia uno dei personaggi coronati ritratti tra i beati. È probabile dunque che l’affresco sia stato realizzato durante il regno di Ladislao (1390-1414), il quale, attraverso l’immagine del padre ritratto tra i giusti degni di accedere al paradiso, procedeva pubblicamente alla riabilitazione dell’intera dinastia, sulle cui generazioni, non bisogna dimenticarlo, pesava l’anatema di papa Urbano VI.

L’individuazione di altri personaggi storici tra i beati raffigurati nel Giudizio Universale della chiesa della SS. Annunziata è piuttosto problematica; reputo plausibile l’interpretazione di Abbatiello, che riconosce nel pontefice alla sinistra di Pietro papa Bonifacio IX; questa lettura potrebbe essere un elemento in più a sostegno del manifesto iconografico in favore dei Durazzo d’Angiò e porterebbe a supporre che l’affresco sia stato realizzato dopo il 1404, anno della morte del pontefice.

Torniamo alla descrizione del Giudizio Universale. Ancora una simmetria è da evidenziare tra la raffigurazione del paradiso e quella dell’interno: alle schiere dei beati, tra cui i re pii, si oppone – alla stessa altezza del Giudizio Universale, ma appunto nella sezione dedicata all’inferno – il ventre di Satana, che stringe fra le braccia i tiranni, ovvero i cattivi governanti (fig. 19). Una simmetria, dunque, volta a sottolineare l’antagonismo tra bene e male, tra le conseguenze di una vita retta e di una peccaminosa, tra la beatitudine e le pene eterne. Ma se si osserva con attenzione, tra i tiranni condannati ci sono tre personaggi che indossano corone adornate dal giglio angioino: è questo un altro elemento dell’ipotetico manifesto propagandistico dei Durazzo d’Angiò? Oppure, come tradizione dell’iconografia del Giudizio Universale, si tratta genericamente della categoria dei cattivi regnanti? La prima ipotesi porterebbe a riconoscere nel dannato ornato da corona regale una allusione a Luigi I d’Angiò, che fu in conflitto con Carlo di Durazzo per la conquista del Regno di Napoli; altre interpretazioni risultano difficili.

Fig. 19

Osservando ancora la schiera degli eletti, vediamo isolata, in basso, la figura di un uomo solo in parte visibile (l’affresco ha infatti delle lacune). L’uomo ha la capigliatura in disordine (fig. 9), in forte contrasto con tutti gli altri eletti che indossano eleganti abiti e copricapi (è quindi di umile origine), e sembra essere in ginocchio, sostenuto da un bastone, o forse da una croce a forma di tau (sotto la capigliatura si intravede una parte di bastone più larga rispetto al fusto). Ritratto mentre chiede le elemosine – atto che lo contraddistinse in vita presso la mensa del ricco epulone, come narra la parabola di Luca ( 16, 19-34) -, potrebbe trattarsi di Lazzaro che, al momento della morte, fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, ossia in paradiso, dove infatti lo si raffigura.

Più in basso, all’esterno della cornice che racchiude la scena del Giudizio, vi sono i resti di una figura di donna probabilmente in ginocchio (una committente), simile alle altre due figure femminili raffigurate insieme alle due maschili (due coppie di committenti) sotto l’immagine dell’angelo nunziante affrescato nel catino absidale della chiesa ed opera del medesimo autore del Giudizio (fig. 45).

La battaglia celeste

Sopra una superficie rocciosa, al di sotto della quale si trova l’inferno, l’arcangelo Michele è impegnato nella pesatura delle anime (ovvero delle azioni buone e cattive di una stessa anima): una piccola figura antropomorfa prega in ginocchio sull’unico piano della bilancia visibile (manca una parte di affresco); il corpo dell’arcangelo e il suo volto sono in posizione frontale, allegoria – come nel caso del Cristo Giudice – di un punto di equilibrio che garantisce l’imparzialità (fig. 20)44.

La figura di san Michele, che ai nostri occhi appare come un’immagine elegante e godibile, aveva la funzione di ricordare alle donne e agli uomini del Medioevo che la giustizia divina sarebbe stata applicata ad ogni singolo individuo, inesorabilmente. Giordano da Pisa, predicando nella città di Firenze nei primi anni del XIV secolo, così spiegava il ruolo di san Michele e il rito della pesatura dell’anima:

Ora conosci la vanità del mondo ch’è neente, e così ne ritorni a Dio, e lascine i peccati. Datti Iddio ancora questo incarico e questa gravezza delle tribulazioni in questa vita, ad librandum. Due sono le bilance; l’una dove sta il peso; l’altra ove sta la cosa che si pesa. Così propriamente sono due le bilance; l’una bilancia è l’anima, e l’altra bilancia è il corpo. Nella bilancia dell’anima sta la vertù e la vontà; nella bilancia del corpo sta il peso della tribulazione: se stanno pari le bilance si è buono. […] Istà Santo Michele e bilanciale: or noi vedete dipinto colae, che bilancia il bene e il male? Allora se’ guiderdonato, e ricevi ciò che dei: se ‘1 bene pesa più che ‘1 male, si vai bene; ma se il male pesa più che ‘1 bene, allora cattivo a te, che vai male; onde guai a chi questo pensamento non pensa dinanzi, e di procacciarsi sì che ‘1 suo bene e la sua buona mercia sia assai, e la cattiva poca, o non niente. Queste stadere di Santo Michele non intendere che sieno stadere di rame o di ferro, che già di quel peso poco varrebbono, che non peserebbono mercatanzìa spirituale. Ma queste bilance sono la giustizia di Dio, la qual pesa tutti i meriti, e tutti i beni, e tutti i crimini, e tutti i peccati, e non falla grano in peso, tanto è giusto45.

Accanto all’arcangelo Michele le virtù, impersonate da sette donne incoronate e aureolate, spingono, aiutate da lunghi bastoni, le teste di altrettante figure femminili – i vizi – nel fuoco infernale

È l’epilogo di una psicomachia – parte integrante del tema del Giudizio Finale, perché l’uomo è giudicato da Dio in base ai peccati commessi e alle virtù esercitate – immortalato nell’istante del trionfo delle virtù cardinali (humilitas, iusticia, temperancia, fortitudo) e delle virtù teologali (spes, fides, caritas), che, in piedi, austere ed eleganti nel loro gesto, portano a compimento l’ultimo attacco alla schiera dei vizi46 ormai sottomessi e umiliati. Le figure femminili sono carponi, hanno dei grossi pesi legati al collo e la testa quasi immersa nell’antro infernale; le fiamme sono in procinto di bruciare i loro volti47,.

Degna di nota è la sostituzione nell’affresco di Sant’Agata de’ Goti di prudentia con humilitas. Già nel XII secolo humilitas aveva affiancato le tre virtù teologali, anzi in alcune testimonianze essa era diventata la più importante tra queste, la madre di tutte le virtù. Nel De fructibus carnis et spiritus (secolo XII), humilitas, definita «radix virtutum», guida le tre virtù teologali e le quattro cardinali in una battaglia contro i vizi capeggiati da superbia, «radix vitiorum». La lotta tra humilitas e superbia, a capo delle due opposte fazioni, è descritta anche nell’Hortus Deliciarum di Herrad di Hohenbourg (secolo XII). È probabile che nel nostro affresco la sostituzione di prudentia con humilitas si sia affermata proprio perché quest’ultima fu considerata in varie psicomachie «radix virtutum» e guida delle stesse virtù cardinali e teologali; essa è infatti raffigurata per prima nella schiera delle virtù e la sua diretta nemica è proprio superbia, «radix vitiorum»48.

Lo scenario infernale

Sotto la disputa tra vizi e virtù c’è la rappresentazione dell’inferno (fig. 25), i cui principali elementi sono le tenebre, il fuoco e la presenza di diavoli e serpenti, principali artefici delle torture eterne.

Un diavolo trascina gli empi incatenati ed ancora vestiti: sono i peccatori trovati in vita su questa terra nel giorno del Giudizio (fig. 31). Su un albero secco, avvolto dalle fiamme, sono appesi e puniti alcuni peccatori: un omicida (omicido) impiccato (fig. 27); il bestemmiatore (blasfemator dei) legato per la lingua (fig. 27); il ladro (latro) appeso per il braccio destro (fig. 26); la ruffiana (ruffiana) per i capelli (ritenuti il principale strumento di seduzione femminile) (fig. 28); colui che ha commesso peccati carnali (fornicator) per il membro virile (fig. 29); il traditore (traditor) legato per il piede destro (fig. 29); il sacrilego (sacrilegius)49 attraverso una fune che gli cinge la vita (fig. 30). Accanto al ladro è appeso, attraverso l’occhio destro, un peccatore a cui non è attribuita alcuna qualifica (fig. 26). Questi potrebbe essere un falso testimone, un testimone oculare che ha mentito su ciò che ha visto e per questo il suo occhio viene utilizzato come uno strumento della sua tortura50.

Ad eccezione del sacrilego, i dannati sono legati all’albero infernale con la parte del corpo che ha reso possibile il compimento del peccato: una sorta di contrappasso in cui l’organo che ha peccato diviene uno strumento del castigo eterno.

Il tema è lo stesso proposto dalla Visione di san Paolo (Visio Pauli): «E sancto Paulo puose mente alle porte del ninferno, e vide arbori di fuoco ardenti; e gli peccadori saliano e discendieno per questi arbori et istavano inpesi in quelli arbori, tali per le mani, tali per li piedi, tali per le lingue, e tali per gl’orecchi»51 .

La rappresentazione dei peccatori appesi ad un albero ricorda quella della pittura infamante52. Ma, nell’ambito di un Giudizio Universale e quindi in un contesto religioso, questa immagine violenta, tratta dalla vita quotidiana, assumeva un aspetto ancora più insopportabile, perché l’infamia, e soprattutto il terrore della tortura fisica, venivano proiettati nell’eternità: una punizione senza fine.

Poco più in basso due demoni sono intenti a dividere in due parti, verticalmente, con una grossa sega, il corpo di Urbano VI celato, come si è visto, dallo «pseudonimo» di «Julianus apostata».

Al centro della raffigurazione dell’inferno è Lucifero” (fig. 19), con i piedi, le mani ed il collo incatenati. Il re degli inferi tiene in braccio re e nobili malvagi, l’iscrizione recita tirandi (tiranni). Essi, riconoscibili dai copricapi e dalle corone (sono infatti nudi), hanno una espressione implorante: lo suggeriscono le mani giunte con le dita incrociate e i loro volti atterriti, alcuni digrignano addirittura i denti.

Alle spalle di Lucifero, un drago alato (figg. 32 e 25 ), dalle smisurate dimensioni, occupa gran parte del regno infero. Emette fiamme dalla bocca e dalle orecchie e sembra essere l’origine del fuoco infernale. La sua boc­ca divora alcuni peccatori sulle cui colpe non è possibile sapere: mancano qualifiche scritte ed attributi particolari che possano identificarli. Essi sono divorati in prossimità dell’ingresso dell’inferno, proprio sotto il registro occupato dai dannati ancora vestiti che, legati ad una catena, vengono trascinati da un diavolo all’interno del regno di Satana. La coda del grosso drago, che si trova in posizione diametralmente opposta rispetto alla sua testa (in basso, alla destra dell’inferno), è munita di una seconda testa, più piccola della prima, che divora o forse rigurgita un altro dannato, anch’esso non identificabile (la parte inferiore dell’affresco, ai piedi di Satana, è piuttosto lacunosa)54. Il drago raffigurato nella chiesa della SS. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti è simile a quello descritto da santa Francesca Romana nelle sue Visioni

Vide anche uno dragone grandissimo, lo quale stava nello dicto inferno et teneva tucti & tre li dicti luochi [nella visione l’inferno è diviso in tre scomparti, uno inferiore, uno intermedio, uno superiore]: lo capo stava nello luoco de sopre, lo cuorpo nel luoco de mieso, & la coda nel luoco de socto. Stava lo capo del dicto dragone in meco della intrata dello inferno, ma poco de socto alla dicta intrata; & teneva la bocca aperta colla lingua de fore, della quale gessiva grandissimo fuoco, non però che lucessi, ma era nerissimo & rendeva grandissimo e crudele calore. […] Et puoi che li demonii avevano menata la meschina anima infine alla boccha o vero intrata dello inferno, alcuna anima gettavano collo capo de socto nella boccha dello sopradicto dragone, la quale stava sempre aperta; et da esso dragone era devorata & prestamente gessiva la misera anima fore dello ventre dragone […]55.

Anche la sorte degli scomunicati (excomunicati) descritta nella visione della santa è analoga a quella dello sconosciuto peccatore divorato o forse espulso dalla coda del drago posta nella parte inferiore dell’affresco: «Delli excomunicati […] erano messe nel principio nella bocca dello dragone, corno è sopra dicto. Et non gessivano dello ventre dello dragone corno l’altre anime, ma stavano nella coda dello dragone, la quale coda stava nello profondo luoco»56.

Nella sezione inferiore del regno infero sono raffigurati, particolare che rende particolarmente originale questo affresco, dei Un’oratori che, proprio per l’errato esercizio della propria professione, sono puniti nel fuoco eterno.

Essi sono tutti avvolti dalle fiamme e ciascuno ha una sorta di punitore personale: un serpente che morde loro le braccia. Sono tutti immortalati nell’atto di esercitare la propria attività e hanno, annotata accanto, una scritta che li qualifica.

Un fabbro (ferraro), munito di incudine e martello, è intento a lavorare il ferro (fig. 33); un banchiere (bancherius), seduto presso una rudimentale tavola, conta delle monete (fig. 34); un giudice (index) ed un notaio [notarius), seduti presso la medesima scrivania, tengono in mano un codice aperto ed un documento in pergamena e sembra siano intenti a conversare ira loro (fig. 35); un calzolaio (sutor) è raffigurato nell’atto di tagliare con delle forbici un pezzo di cuoio, o di tessuto (fig. 33).

Più in basso un mugnaio (molinator) dotato di una macina a pedale è intento appunto a macinare granaglie; al suo fianco un macellaio (buccerius) e un oste (tabernarius) sembrano conversare (fig. 36). Il primo ha nelle mani presumibilmente dei pezzi di carne; il secondo solleva con la mano destra un grosso boccale, con un gesto simile a quello di chi sta per proporre un brindisi.

A seguire un personaggio non facilmente identificabile: l’affresco non è in buone condizioni e la lettura della didascalia che qualifica l’uomo è piuttosto deteriorata. Reputo possa essere un sarchiatore, sia dall’interpretazione di ciò che resta della legenda (subr… ator, da intendere «subruncator», sarchiatore), sia dall’oggetto impugnato nella mano destra, che potrebbe essere una roncola: l’attrezzo dalla lama ricurva fissata ad un manico di legno usato per la potatura delle piante e per liberare il terreno dalle erbe infestanti

ri tre tipi di peccatori. Vi è un usuraio (usuraro), contro cui infierisce un diavolo costringendolo ad ingurgitare del liquido dal colore grigio, probabilmente del metallo fuso (fig. 38). L’immagine dell’usuraio punito in questo modo, o in maniera simile, non è nuova: essa si trova, per esempio, nell’affresco del duomo di San Gimignano, dove questo peccatore è costretto ad ingoiare monete defecate da un diavolo, e nella miniatura perduta dell’Hortus Deliciarum di Herrad di Hohenbourg (XII secolo), in cui un diavolo versa, dalla borsa legata alla cintura, delle monete nella bocca dell’usuraio.

Un dannato messo allo spiedo, di cui non ci è pervenuta nessuna qualifica, potrebbe essere un sodomita (fig. 36), in analogia con la stessa punizione inflitta al medesimo peccatore nell’inferno dipinto da Taddeo di Bartolo nel duomo di San Gimignano e nella cripta della chiesa di S. Francesco a Leonessa, in provincia di Rieti (XV secolo)57.

Una figura femminile dai lunghi capelli biondi, anch’essa senza qualifica, impugna nella mano destra una piccola ampolla per il profumo e, nella sinistra, uno specchio (di cui è visibile solo una parte poiché, anche in questo caso, l’affresco è deteriorato). La donna, che ostenta i simboli della seduzione femminile (la lunga chioma bionda – attributo per antonomasia della Maddalena e quindi dell’istigazione alla lussuria -, il profumo, lo specchio), potrebbe essere una prostituta, considerando la prostituzione come uno dei mestieri che non vengono esercitati senza commettere peccato e ritratti in questa specifica sezione dell’affresco; oppure, più semplicemente, potrebbe rappresentare l’allegoria della lussuria

Pene transitorie

Sotto e a fianco dell’altare dell’Etimasia sono raffigurate due scene relative al purgatorio. Una scritta, posta sotto quella relativa ai santi Innocenti, recita: pro missas pro helemosina(m). Le anime del purgatorio escono da un antro roccioso; accanto gli angeli le accolgono (ogni angelo si occupa di una sola anima). Alcuni di essi suonano (un angelo ha una giga, un altro sembra impugnare una viella) e guidano le anime monde dal peccato verso la zona dell’affresco in cui è raffigurato il paradiso con i patriarchi. Sono le anime di coloro che hanno finito di scontare più celermente la pena prevista per i peccati veniali compiuti in vita. Esse hanno beneficiato dell’intercessione dei vivi, che in loro favore hanno fatto celebrare messe ed hanno offerto elemosine alla Chiesa, garantendo loro un periodo di purgazione più veloce (figg. 39-40).

Alla destra dell’altare si presenta un’altra scena relativa alle anime del purgatorio: da una cavità rocciosa in cui c’è un fiume – le cui acque sembrano scorrere veloci – fuoriescono altre anime di peccatori (ci aiutano le diciture fornicatio, avaritia), richiamate da un angelo che le invita a presentarsi al rito della pesatura dell’anima58. Coloro che stanno per emergere dalle acque hanno un atteggiamento orante, non diverso da quello assunto dai personaggi che escono dagli avelli.

Il fiume ricorda il Letè dantesco, in cui le anime e lo stesso poeta fiorentino vengono immersi al termine del percorso di purificazione e da cui escono dimentichi dei peccati commessi59.

Attraverso la scelta di ritrarre l’uscita delle anime dal purgatorio in modo duplice, si evidenzia l’efficacia delle azioni dei vivi in favore dei morti. Coloro infatti che hanno goduto dei benefici di messe in suffragio, o per cui parenti ed amici hanno compiuto le elemosine, raggiungono attraverso una strada più diretta il paradiso: escono dal purgatorio senza dovere sottostare alla immersione nel fiume purificatore.

Più in basso, alla sinistra della parete su cui è raffigurato l’inferno, risiedono altri due gruppi di anime: il primo gruppo, formato da figure maschili visibili dalla testa ai fianchi, si trova in una cavità rocciosa; il secondo gruppo è invece formato da figure (di cui si vedono solo le teste) immerse in una sorta di pozzo

Questi due luoghi non sono avvolti dalle fiamme dell’inferno e coloro che vi risiedono non sembrano subire alcun tipo di tortura, ma piuttosto hanno l’aspetto di chi è in attesa. Purtroppo le iscrizioni che restano sono di poco aiuto per cercare di comprendere la differenza tra i due luoghi e per definire la loro identità precisa. Sul bordo del puteale restano poche lettere (lo poc…, o forse lopoc.. ), sulla cavità rocciosa ancora meno (lol…). I due articoli al maschile singolare («lo») lasciano intendere che le due iscrizioni perdute si riferivano a qualificare il luogo piuttosto che il gruppo di anime in esso raffigurate.

Certa è la delimitazione netta con il vicino inferno: non ci sono fiamme, né serpenti, né diavoli; credo si possa affermare ragionevolmente che la cavità inferiore rappresenti il limbo60 (anche per l’iscrizione «lo l[imbo]») e che il pozzo superiore («lo poc[co]») sia una sezione del purgatorio.

La condanna dei peccati in base allo «status» socio-professionale

Come si è già scritto, tratto originale di questo Giudizio Universale è dato dalla presenza all’inferno di categorie socio-professionali. Questo tema, presente anche in altri cicli di Giudizi Universali dell’Italia centro-meridionale61, costituisce una testimonianza dell’affermazione nella realtà economica e civile del Basso Medioevo di categorie professionali quali giudici, mercanti, notai, artigiani, la cui attività era indispensabile al normale svolgimento della vita quotidiana. E come la società diveniva sempre più complessa ed articolata, così l’immaginario infernale si adeguava ai mutamenti della vita terrena, affiancando ai peccatori rei di aver commesso vizi capitali anche quelli che avevano commesso peccati legati all’esercizio della propria professione. Alla categoria del peccato si veniva affiancando la categoria del peccatore, proprio in virtù della importanza crescente che ogni categoria professionale acquisiva all’interno della società. La Chiesa, attenta alle evoluzioni socio-culturali, percepiva i cambiamenti e cercava di controllarli: il campo della predicazione e quello della confessione si adeguarono all’insegnamento della religione ad status.

Famosi predicatori come Giordano da Pisa (XIV secolo) e Bernardino da Siena (XV secolo) dedicarono gran parte della loro predicazione a mercanti e artigiani. A questi veniva contestato il commercio con frode e dolo, attraverso l’uso di falsi pesi e misure, oppure la vendita di merce scadente o fallata a danno di ignari acquirenti, o anche il peccato di usura. Dice Giordano:

Et peccano [li mercatanti] in tre modi, cioè: in substantia rei, in qualitate et in mensura. in substantia rei, in della sustantia della cosa, però che molte volte vendono una cosa per un’altra. Vendranno una cosa per oro et non sarà. Questa è falsità somma! Et questi cotali mercatanti son cacciati da Dio del tempio, però che sono mali mercatanti, che vendono una cosa per altra, là unde elli offendono Dio in verità. In del secondo modo peccano li mercatanti in falsitade di qualità: che ben sarà oro, ma non buono, et vendrallo per buono! Questo è grandissimo inganno, ad vendere la mala mercatantia per buona. Questi sono mali mercatanti! Et questi son cacciati da Cristo del tempio, però che ingannano li proximi, et soline tenuti ad restitutione d’ogni danno dato. Nel terco modo ingannano lo proximo in mensura, et questi cotali mercatanti son cacciati del tempio come io diroe. Molte sono le misure: l’una è misura di cocine o vero bilancie, però che alcune cose sono che ssi pesano; un’altra misura è che ssi fa ad canna. Un’altra misura è come sono li denari, li quali, secondo Aristotile, sono una misura generale colla quale tutte le cose si stimano. Li mercatanti li quali ingannano, et vendono coi falsi pesi o pesano male o danno false monete, sono cacciati del tempio di Dio et dannati. Anco quelli che fanno le male misure colle canne, però che stendono troppo lo panno, sono cacciati del tempio, però che in falso modo lo vendono. Anco li mercatanti che falsamente et con false paraule induceno li compratori sono cacciati del tempio. Anco quelli che misurano colla mala misura della pecunia. Verbi gratia: però che vendono le lor cose oltra quello ch’elle vagliono. Ae volontà quelli che vende di vendere la cosa in doppio più che non vale: questi è malo merchatante et è cacciato del tempio, pero che misura la cosa siili con troppo grande misura, unde però pecca et ènne tenuto ad restitutione. Et lo simigliante dico di tutte queste cose in del comperatore, se elli vuole ingannare lo venditore: però che la cosa buona vuole comprare per ria et avìliala, et vorrebbela comprare per la metà meno ch’ella vale. Questi è mal mercatante et de’ essere cacciato del tempio. Unde non è licito ad avere mala volontà ad volere ingannare lo proximo. […] Or potresti tu addimandare se fusse licito ad vendere le mercatantie ad termine. Rispondoti che se tu non vendi la cosa più per lo termine che la possi vendere al termine, non pecchi. Altrementi se tu la vendi al termine più per la ragione del termine, allora è usura et pecchi mortalmente. Anco si suole dimandare quando la pecunia si dà in prestansa o in accomandigia al mercatante et non di’ nulla ch’elli te ne dia merito, ma pur ài intentione d’averne alcuna cosa, stando sempre sal­vo lo capitale. Usura è, et non è licito di prendere alcuna cosa62.

In alcuni casi, secondo Bernardino da Siena, l’accusa rivolta ai mercanti è di spergiuro:

[…] quando con bugie, con sagramenti falsi vendi e compri la mercatanzia, o con mali pesi, o con cattive misure, con soffisticamenti, con mescolare una cosa con un’altra, come fanno gli speziali. E, ogni volta che giuri falsamente sopra a una mercatanzia, pecchi mortalmente, e così ogni volta di’ bugie, che si ricorda el nome di Dio invano, dicendo el falso e giurando el falso63.

Ai mercanti inoltre contesta l’esercizio della propria attività nei giorni e nei luoghi consacrati a Dio:

[…] che d’ogni tempo non debbi mercatare come sono e dì delle feste comandate da santa Chiesa da guardare; è massimamente doppio peccato mortale quando per lo mercatantare tu ne perdi la messa e il bene che tu se’ tenuto di fare. La sacrata quaresima il lasciare le prediche per avarizia e per cupidità di guadagnare è peccato mortale […] che in ogni luogo non è lecito il fare mercatanzia. È proibito el farla o il ragionarla nelle chiese, ne’ chiostri, ne’ cimiteri sagrati di santa Chiesa64.

Nel campo della confessione vennero redatti, a partire dal XIII secolo, manuali per confessori inesperti, una sorta di abbecedari della confessione in cui si riportavano lunghe serie di quesiti da porre in base ai vizi capitali e, in alcuni casi, anche in base allo status socio-professionale di coloro che si confessavano. Molto conosciuto, per quanto riguarda questa seconda tipologia di manuali, fu il Confessionale65 di Giovanni di Friburgo (m. 1314) che ebbe una grande divulgazione nei secoli XIV e XV. Sotto forma di promemoria, il Confessionale elenca una lunga serie di domande da porre ad ecclesiastici, giudici, avvocati, medici, docenti, mercanti, con tadini, artigiani, salariati. Questo catalogo di peccati e potenziali peccatori, opera di meticolosa classificazione, ci informa di tutte la colpe in cui gli uomini e le donne potevano incorrere. Inoltre manifesta la volontà dell’autorità religiosa di combattere i vizi in nome dell’ideologia cristiana e di promuovere dei modelli di comportamento sociale ad essa confacenti66.

Ma l’attenzione alla condanna del fenomeno non era propria solo della Chiesa: anche negli statuti cittadini medievali veniva dato largo spazio alla regolamentazione delle attività commerciali, soprattutto in funzione della repressione delle frodi a danno degli acquirenti67.

La condanna del peccato ad status ha testimonianze anche nella letteratura, in particolare nel genere letterario delle visioni dell’aldilà: singolari sono le già ricordate Visioni di santa Francesca Romana (XV secolo), che vide torturati all’inferno giudici, medici, farmacisti, macellai, osti. Nelle Visioni i giudici che hanno emesso false sentenze sono immersi in tini con oro e argento liquefatto e vengono dilaniati dai diavoli68. I medici – colpevoli di avere praticato aborti, di avere consultato libri proibiti, di avere esercitato la professione semplicemente a scopo di lucro e di avere prestato cure ai pazienti prima che questi si fossero confessati69 – sono appesi a testa in giù, posti tra graticole infuocate e graffiati dagli artigli dei demoni70. I farmacisti subiscono per i peccati di ignoranza e avidità le medesime torture dei medici71. Gli osti, poiché hanno peccato di frode vendendo vino annacquato, vengono immersi nel ghiaccio, poi nel vino bollente, quindi nell’aceto. Colpevoli del peccato di avidità, sono inoltre costretti a ingerire oro e argento liquefatto72. Infine i macellai: sono fissati ad una bilancia per mezzo di uncini conficcati nel collo e i demoni tirano contro di loro carne rancida (tra cui la trippa, usata per un tipico piatto romano). Questa punizione è dovuta al peccato di frode, poiché hanno venduto carne avariata per buona, o tipi di carne meno pregiata al posto di altri più gustosi e soprattutto più costosi. I demoni, simulando proprio il lavoro del macellaio, tagliuzzano le membra dei dannati come per farne salsicce, seguendo accuratamente «tale arte dello maciello»73.

Per quel che riguarda il genere letterario delle visioni va ricordata la prima, originalissima testimonianza dei professionisti all’inferno: la Visio Thurkilli, scritta in Inghilterra tra il 1207 e il 1208, che riporta il racconto del viaggio fatto nell’aldilà da Thurkillo, uomo di umili condizioni («ab homine rustico et linguae Latinae imperito»)74, originario dell’Essex.

Thurkillo descrive la presenza di un teatro infernale, dove i diavoli assistono allo spettacolo-punizione delle anime dei dannati, che sul palcoscenico ripropongono le azioni commesse in vita. Tra gli attori della singolare rappresentazione ci sono un giudice, un sacerdote, un agricoltore, un mugnaio e un mercante75.

Ulteriore testimonianza della letteratura quattrocentesca è invece un poemetto di origine campana privo di titolo, che, narrando le pene dell’inferno visitato dal suo anonimo autore, recita:

[…] Questi so’ iudici con molti notari, capitani, camerlenghi e giustizieri, li qua(l)i fuero ingannati per denari e non fecero la giustizia e li mistieri. Tristi e tappini, che fuer(o) tanto avari, per far grandi palazi e ricchi ostieri. Dello diritto ne fecero torto: mo’ stan(no) con Sattenasso a malo porto.

[…] Quelli de sotto sono fattuchiari,che del demonio fecero figura; quelli da lato so’ li tavernari, quelli che danno la mala misura; e tutti quell’altri sono li ferrari, che fan(no) li ferri contra omne mesura. […] Là vidi mercanti e cagnatori [cambiavalute] e medici e molti spiziali, vidivi calzolari e sartori, insiemora con essi macellari star(e) nell’inferno a quelli gran calori, perché all’arte non iro legali. Ognun tenea manti lor(o) sentenze, secondo che avian facte le offense.

[…] Delli orifici vi vo[glio] contare come in inferno stanno ben al fondo, ché si pensaro nell’oro lavorare, che mesticavano con ariento, rame e piombo; ma per la roba loro avantagiare, non resguardavano omo in questo mondo e non sguardaro amico né parente.

Nel fondo dell’inferno iaccion veramente. […] Qualunqua artefice sia che non face l’arte diritta come deve fare in sempiterna secula là iace; per ciò è buono dinanzi pensare, e questo è verità e non è fallace, perché ognuno la deve ben fare; e poi che c’entri non ne pòi uscire e non ti iova il tuo repentire76.

Nell’inferno della chiesa della SS. Annunziata particolare rilievo è dato ai tiranni stretti tra le braccia di Satana. Benché possa essere ragionevole l’ipotesi di un’allusione al re Luigi d’Angiò tra questi peccatori, è evidente -in analogia con la tradizione iconografica del Giudizio Universale che non di rado propone tra i dannati alle pene infernali monarchi e prìncipi – una forte denuncia contro il cattivo operato dei regnanti, i detentori del potere temporale che rispondono dell’amministrazione della giustizia umana. L’incapacità di tutelare gli abitanti dei territori di propria giurisdizione, imprese militari ingiuste, la vessazione della popolazione con tasse ingiustificate, l’inabilità a garantire la giustizia, il tollerare che la frode si insinui tra i commerci: tutto questo poteva realmente conferire ai regnanti l’appellativo di tiranni. L’operato dei regnanti ingiusti, la categoria di peccatori più numerosa in questo affresco (sono ben nove!), viene così condannato attraverso la collocazione dei diretti responsabili sul grembo di Satana”.

Vicino ai tiranni ci sono coloro che, ricoprendo cariche pubbliche – i loro atti sono l’emanazione del potere di un determinato territorio -. hanno approfittato della propria posizione per compiere atti illeciti: il giudice ed il notaio. Essi, non a caso, siedono presso la stessa scrivania e conversano ira loro.

Il giudice aveva molteplici occasioni per agire in modo scorretto, e dunque per meritare le pene infernali: l’abuso di potere, la negazione dell’appello nel corso di un processo, la negligenza nell’assicurare una adeguata assistenza legale alle categorie più deboli (poveri, orfani, vedove) e soprattutto l’emissione di sentenze ingiuste in cambio di denaro. Questa è l’accusa più frequente rivolta ai giudici: ne sono testimonianza, lo abbiamo visto, le Visioni di santa Francesca Romana (dove ai giudici falsari, condannati all’inferno, sono riservate delle torture assai sofisticate che variano dalla immersione in metalli liquefatti bollenti alla lacerazione delle membra per mezzo di uncini) e lo stesso poemetto anonimo quattrocentesco, che giustifica la dannazione di giudici e notai poiché per denaro non hanno esercitato la giustizia78.

Il fatto che giudice e notaio compaiano in questo affresco quasi in qualità di «colleghi» potrebbe non essere casuale, e neanche dovuto ad una scelta compositiva dell’artista esecutore del Giudizio. Sarà da ricordare la presenza nell’Italia meridionale della figura professionale del giudice ai contratti, figura sopravvissuta proprio nell’area beneventana oltre il secolo XIV e che poteva ancora essere presente all’epoca della realizzazione dell’affresco a Sant’Agata de’ Goti. Scrive Alessandro Pratesi a proposito della genesi del documento privato:

Nell’Italia meridionale longobarda il rogatario [colui che provvede alla stesura di un documento], indicato pressoché costantemente come notarius, non sottoscrive il documento, ma si limita a dichiarare, in forma ora diretta ora indiretta, di aver proceduto alla sua stesura: la credibilità del suo scritto è dunque affidata unicamente alle sottoscrizioni testimoniali; ma è sintomatico il fatto che con frequenza sempre maggiore si ravvisa e nell’azione giuridica e nella documentazione la presenza di un giudice o di un funzionario amministrativo con mansioni giudiziarie il quale, conferendo il suo riconoscimento al rapporto giuridico, trasferisce tale garanzia di stabilità al relativo documento, da lui stesso sottoscritto: di qui si verrà gradualmente formando quella categoria di giudici ai contratti, tipica dell’Italia meridionale, che avrà sanzione ufficiale nella legislazione di Federico II. […] La sottoscrizione del giudice [continuerà a figurare] nel territorio beneventano, ancora per lungo tempo, fino a tutto il XIV secolo e oltre79.

Il notaio, figura professionale di grande prestigio perché sapeva scrivere, interpretare e tradurre dal latino al volgare e viceversa, poteva essere volutamente l’estensore di un documento il cui testo non corrispondeva a verità e che un giudice consenziente poteva autenticare. Questo giustificherebbe l’immagine della chiesa della SS. Annunziata in cui i due professionisti sono ritratti insieme a confabulare.

11 notaio inoltre poteva prestare la propria opera per la compilazione di contratti che sancivano atti ritenuti illeciti80.

Il giudice ed il notaio sono circondati da altri professionisti peccatori, condannati per essere principalmente degli imbroglioni. Essi sono: il banchiere, il mugnaio, il macellaio, l’oste, il sarchiatore ed il calzolaio.

La presenza del banchiere all’inferno è presumibilmente da attribuirsi a due cause: la prima è legata al suo ruolo originario di cambiavalute che, seduto dietro un banco, proprio come rappresentato nell’affresco della chiesa della SS. Annunziata, praticava il cambio del denaro grazie alla conoscenza dei tipi e dei valori delle monete in circolazione, controllandone la lega. Dunque il banchiere poteva, se disonesto, approfittare delle proprie competenze per truffare coloro che cambiavano denaro in più modi: con cambi errati, oppure fornendo consapevolmente denaro falso. Un ulteriore motivo rendeva però il banchiere inviso alla Chiesa: l’accusa di usura. Dal XII secolo la diffusione del commercio internazionale impose metodi di pagamento alternativi al trasporto di valuta; nacque la cambiale, mediante la quale il prestatore, nel nostro caso il banchiere, forniva una somma di denaro al debitore, il quale si impegnava a restituirla alla scadenza stabilita, ma in altra valuta. Il contratto prevedeva per il prestatore un interesse per l’operazione di cambio, ovvero un guadagno sicuro su un prestito, guadagno che, non essendo giustificato dal rischio incorso, veniva condannato dalla Chiesa come usurano81. Il banchiere, dunque, se usuraio e truffatore era inevitabilmente destinato alle pene dell’inferno.

Altro truffatore ritratto nell’inferno è il mugnaio82, la cui attività era soggetta ad una precisa regolamentazione. In determinati luoghi egli era tenuto a giurare, alla presenza di pubblici ufficiali, di esercitare in modo onesto e corretto la propria professione. La sua funzione, di assoluta utilità pubblica, lo esentava dalle campagne militari. Era tenuto a garantire la macinazione del grano per chiunque si presentasse al suo mulino, seguendo un preciso ordine di precedenza, senza possibilità alcuna di fare delle eccezioni. Egli doveva riconsegnare la farina ricavata dalla macinazione del frumento entro un termine preciso, stabilito dalla legge. Sempre per legge doveva trattenere per sé, come pagamento per il lavoro prestato, un determinato quantitativo di farina, in genere equivalente ad un sedicesimo del frumento macinato (l’indice di resa). Per evitare ogni possibile frode, le autorità locali imponevano al mugnaio l’utilizzo di bilance da loro controllate e marchiate; vigilavano affinché non aggiungesse al grano di migliore qualità e maggiore prezzo cereali meno pregiati, oppure, per aumentare il peso e la resa, cenere, gesso, calce. Altra frode che il mugnaio era tenuto ad evitare era quella di bagnare le farine, sempre per aumentare il peso del prodotto macinato. Un’ultima operazione rendeva il mugnaio particolarmente inviso: l’accumulo di ingenti quantitativi di grano da rivendere in momenti particolarmente drammatici (carestie, guerre, siccità) speculando sul prezzo83. Questo spiega l’avversione della popolazione nei confronti di una categoria che si arricchiva ed era pronta a lucrare su un bene primario, la farina, principale mezzo di sostentamento per le categorie più deboli.

L’accusa di furto nei confronti del mugnaio non si è limitata al Medioevo, ma si è diffusa nei secoli, e ancora sopravvive attraverso detti, proverbi e canzoni popolari tanto da rendere l’associazione mugnaio-ladro assai popolare: «Puoi cambiare il mugnaio, non cambierai il ladro»; «Quando il topo è nel sacco si prende per il mugnaio»84.

Degno di nota un canto popolare toscano citato da Carlo Ginzburg:

Andai all’inferno e vidi l’Anticristo e per la barba aveva un molinaro, e sotto i piedi ci aveva un tedesco, di qua e di là un oste e un macellaro: gli domandai quale era il più tristo, e lui mi disse: Attento, or te l’imparo. Riguarda ben chi con le man rampina: è il mulinar dalla bianca farina. Riguarda ben chi col le mani abbranca, è il mulinar dalla farina bianca. Dalla quartina se ne va allo staio; il più ladro tra tutti è il mulinaio85.

Accanto al mugnaio è ritratto il macellaio, rappresentante di una categoria professionale tra le più diffuse; anch’egli dimora all’inferno a causa del peccato di frode.

I macellai erano sottoposti al controllo delle autorità pubbliche che regolavano le attività di tutti i mestieri legati al commercio di viveri; tali autorità controllavano, oltre alla qualità delle merci, l’uniformità dei pesi e delle misure. Si raccomandava ai macellai di collocare le diverse qualità di carne in vendita su banchi differenti, al fine di evitare scambi fraudolenti a danno dei clienti nel momento dell’acquisto. I macellai erano tenuti a macellare gli animali nei luoghi e nei tempi stabiliti dalla legge, affinché non fossero elusi i controlli sul bestiame: si tendeva ad evitare per esempio la macellazione di carni di animali morti per malattia o per cause naturali86. Inoltre, secondo le norme che valevano per qualsiasi operatore di bottega, il macellaio doveva vendere la propria carne di giorno, poiché l’oscurità mascherava la frode sulla qualità e sulla quantità della merce. Egli inoltre non doveva attirare, con urla e schiamazzi, i clienti che si erano avvicinati ai banchi dei colleghi; un richiamo dunque all’etica professionale.

Appoggiato allo stesso tavolo del macellaio c’è l’oste. Anche per questa categoria professionale le occasioni che portavano al peccato, e quindi alle pene infernali, erano molteplici. In primo luogo l’oste lavorava nella taverna, il tempio dell’ubriachezza in cui si incontravano briganti, giullari, ladri, prostitute; viveva ed esercitava la propria professione in un ambiente contaminato da peccatori. Egli avrebbe dovuto impedire che nel proprio locale venissero pronunciate bestemmie (alimentate dall’ubriachezza); che gli avventori giocassero d’azzardo o si ubriacassero; avrebbe dovuto vigilare su risse ed eventuali ferimenti (generati dalle perdite al gioco); non avrebbe dovuto dare albergo alle prostitute (che però incrementavano la clientela). Ma, a giudicare dall’alto numero di procedimenti penali relativi ad accoltellamenti, bestemmie e risse denunciati nelle locande87, gli osti erano impegnati più a mescere e vendere vino e a tollerare ogni sorta di clientela piuttosto che a garantire il decoro e l’ordine pubblico. La taverna era una attraente alternativa alla chiesa; i fedeli, dimentichi degli obblighi religiosi, preferivano fermarsi a bere vino piuttosto che seguire la messa: era il tempio del diavolo. Ma il peccato più contestato agli osti era indubbiamente quello di frode per avidità di guadagno: l’uso di mischiare il vino con l’acqua, o la vendita di un vino al posto di un altro, differente per provenienza, qualità e prezzo.

Accanto all’oste è ritratto un contadino, o più in particolare il sarchiatore.

Quali tipi di frode poteva commettere un agricoltore durante lo svolgimento della propria attività lavorativa? Il contadino aveva la possibilità di truffare i propri padroni ed i proprietari confinanti in più occasioni: derubando le colture; cambiando le linee di confine dei campi durante i lavori di aratura; danneggiando le coltivazioni ed i raccolti per incuria o per vendetta88. Gli agricoltori dediti al furto e alla frode venivano intimoriti attraverso la rappresentazione della loro immagine tra i dannati alle pene infernali; nessuna attenuante era prevista per le condizioni di estrema povertà in cui vivevano.

Figura anche, tra i dannati truffatori, il calzolaio. Come tutti gli artigiani egli poteva lucrare illecitamente sul compenso per l’opera prestata facendo pagare troppo il proprio lavoro, oppure ingannando sulla qualità dei manufatti, vendendo prodotti scadenti o fallati agli acquirenti. Per Bernardino da Siena il calzolaio truffatore non appartiene a Dio: «Se tu se’ di quelli di Dio, sempre fai l’operazioni tue con carità, calde e ardenti. Se tu se’ del mondo, mai non farai opera calda, però che in te non è carità. E però considera te stesso, di quali tu se’. Piglia l’essemplo. Se se’ calzolaio, elli viene uno a te: – Che vuoi di queste scarpette? – Io ne voglio quindici soldi. – Se tu le dai a meno, tu non parlasti con carità, e hai mentito. Oltre. -O calzolaio, fammi un paio di scarpette buone. – Elli dice: – Io te le farò migliori che sieno in Siena. – Se non le farai come tu hai detto, tu non se’ di quelli di Dio»89.

Ancora un altro artigiano viene ritratto tra i dannati: è il fabbro. A questo artefice era contestato il cattivo uso della propria arte: la costruzione di armi – spade, frecce, balestre – destinate ad essere utilizzate in combattimenti, guerre e duelli lo rendeva indirettamente responsabile di essere un promotore di spargimenti di sangue, accoltellamenti, omicidii, rapine. Il poemetto anonimo campano sopra citato giustifica la presenza dei fabbri all’inferno poiché «fan(no) li ferri contre omne mesura»90; la frase potrebbe alludere, confermando quanto detto, alla dimensione delle armi, realizzate in misure sproporzionate e quindi più pericolose, ma anche alla produzione di manufatti che non rispondevano alle grandezze richieste dagli acquirenti, nella cui realizzazione il fabbro poteva guadagnare lucrando sulla materia prima.

Alla destra di Satana sono stati invece immortalati l’usuraio e la iigura femminile che potrebbe simboleggiare una prostituta.

L’usuraio avido di guadagno è punito perché si arroga il diritto di arricchirsi attraverso la riscossione di un interesse come corrispettivo di una prestazione che non contempla né la produzione, né la trasformazione di beni materiali concreti (e quindi neanche un margine di rischio). L’usuraio vende il tempo che intercorre tra il momento in cui presta denaro e quello in cui viene rimborsato con un plusvalore; ma il tempo appartiene solo a Dio, egli perciò trae profitto dalla vendita di un bene che non gli appartiene. Ammoniva san Bernardino:

[…] ancora sono venditori della grazia di Dio. Natura di Dio si è dare la grazia a noi; prestare a usura è vendere la grazia di Dio. El tempo è dato a noi per grazia di Dio, e tu el vendi, quando vendi al tempo, più che a contanti. Inverso el prossimo, peccano grandemente. Che cosa è usura, usuraio? È una cosa di crudeltà. In alcuno luogo è chiamato el prestatore, el piatoso, ma è molto crudele. Dirà alcuno: – E non si può fare senza prestatori, e servono i bisognosi.

Come gli servono? Isbudellandogli, e, se sono poveri, gli fanno più poveri. Seconda malignità. L’usuraio è arca d’iplochesia. Non vedi tu che gli pare fare servigio al prossimo prestandogli a usura, e radelo insino all’osso?

Gli usurai sono di schiatta di barbèri che radono gli uomini, anzi gli pelano infino che ne viene il sangue vivo. Terzamente ancora, contro al prossimo è l’usuraio ispilonca di landroncelleria. Gli usurai son ladri. Non sai tu che Cristo, a’ ventuno capitoli di san Matteo, quando andò nel tempio che cacciò fuori gli usurai e gli altri, e’ disse loro: «La casa mia debb’essere casa d’orazioni, e voi l’avete fatta spilonca di ladroni»?

Sicché gli chiama ladroni gli usurai, non che ladri’91.

Gli esegeti e i predicatori medievali erano concordi: l’usuraio era condannato alle pene eterne senza alcuna possibilità di appello92. Forte doveva essere anche l’avversione degli uomini nei confronti di questo professionista, vedendo in lui, come ancora accade oggi, uno speculatore sui bisogni e sulle difficoltà altrui.

All’estrema destra dell’inferno, sotto alla raffigurazione del limbo, è ritratta la prostituta. E l’istigatrice del peccato di lussuria; il suo peccare danneggia se stessa ed i clienti che seduce. La donna sembra intenta ad affilare le armi della propria arte, la seduzione, impugnando nella mano destra una piccola bottiglia di profumo e nella sinistra uno specchio. Attraverso questa figura viene espressa la condanna di una operazione ingannevole: la donna, ricorrendo ai belletti e alla cura dei capelli, propone agli altri, in particolare agli uomini, una immagine di sé migliore, ma falsa, perché non corrisponde all’autenticità della propria figura93.

L’usuraio e la prostituta sono puniti in quanto esercitano professioni condannate nella loro totalità e non perché queste possano essere esercitate anche in maniera fraudolenta. In questi due casi reputo perciò più corretto parlare di condanna dello status peccaminoso, piuttosto che di condanna del peccato ad status. Forse anche l’autore dell’affresco della chiesa della SS. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti ha voluto consapevolmente separare questi due peccatori dal resto dei dannati, ponendoli alla destra di Satana e non raggruppandoli insieme agli altri professionisti, posti invece alla sinistra del demone.

L’affresco del Giudizio Universale, nel suo insieme, era l’ultima immagine che gli uomini e le donne del Medioevo vedevano uscendo dalla chiesa al termine delle funzioni religiose. Esso rappresenta la testimonianza, in chiave iconografica, del pensiero cristiano, che promette ricompense o castighi dopo la morte e si sforza di indirizzare gli usi e i costumi degli uomini e delle donne in funzione dell’aldilà. Lo scopo di queste immagini era didattico; tutti coloro che osservavano l’affresco erano portati, volentieri o meno, ad una riflessione sulle azioni compiute.

In questo affresco viene tradotta in immagini la conflittualità sociale scaturita dal mancato rispetto delle regole da parte di categorie divenute protagoniste della scena economica ed amministrativa della società. Una conflittualità denunciata dallo scenario cupo (soprattutto rispetto al paradiso), dalle torture e in particolare dal ritratto inconfondibile dei peccatori, la cui identità è palesata grazie alle didascalie poste accanto a ciascuno di loro; come non bastasse, sono anche immortalati nell’esercizio della propria attività, muniti degli strumenti utili alla propria arte. Artigiani e mercanti sono condannati per gli eccessi di lucro, per l’avarizia; la stessa condanna è imputabile ai giudici, ai notai ed ai banchieri che, pur non vendendo materie prime o manufatti, forniscono prestazioni professionali compiendo atti illeciti per cupidigia di denaro.

Questo Giudizio Universale, con il suo programma iconografico, testimonia che per una società articolata e complessa la semplice condanna dei vizi capitali e in particolare dell’avarizia non è più adeguata nel XV secolo: troppo generica per indurre tutte le categorie di peccatori alla contrizione. La natura del peccato si palesa maggiormente quando l’immagine mostra in modo inequivocabile la punizione del peccatore. Così i calzolai, i giudici, i notai, gli osti, i macellai, gli agricoltori, i banchieri, che guardavano la propria immagine ritratta nell’inferno, erano sollecitati a riflettere sul proprio comportamento in una prospettiva escatologica. La rappresentazione delle punizioni era una minaccia assai efficace per atterrire ed ammonire i peccatori. Coloro invece che avevano subito il torto o la truffa da parte di questi professionisti potevano forse rallegrarsi, riponendo nella giustizia divina le disattese speranze in quella terrena.

Nella raffigurazione dell’inferno della chiesa della SS. Annunziata è evidente che tutti i peccatori sono richiamati dal monito del memento mori ad una condotta di vita conforme agli ideali della Chiesa; ma alcuni lo sono più degli altri. La condanna forte sembra essere per i cattivi governanti, i tiranni, ritratti in gran numero – è l’unica tra le categorie raffigurate ad avere tanti rappresentanti – al centro dello scenario infernale. Essi non sono soltanto ritenuti responsabili degli atti illeciti compiuti in prima persona, ma anche degli esiti nefasti della loro condotta, che ha consentito il proliferare di ingiustizie. Gli attori di queste ingiustizie sono tutti intorno a loro: professionisti corrotti (giudice e notaio), truffatori (banchiere, mugnaio, macellaio, oste, sarchiatore e calzolaio), peccatori incorreggibili (usuraio, prostituta).

Questo monito rimaneva negli occhi e nel cuore dei fedeli alle prese con occupazioni che sarebbero potute continuare, come tragica punizione, nell’aldilà. Il Cristo ritratto nella mandorla, enorme per dimensioni ed austero nel mostrare le piaghe in virtù delle quali giudica l’umanità, è il trionfatore della scena. I tiranni appaiono, rispetto all’immagine del Giudice, minuscoli, così che il loro prestigio, la loro importanza, e dunque il loro potere terreno, siano palesemente ridimensionati. Ad evidenziarne l’impotenza i loro volti sono impauriti; corone e copricapi sono simboli di un potere ormai perduto.

Con la dannazione dei detentori del potere terreno viene condannato il cattivo esercizio della giustizia umana: è l’affermazione solenne del primato del Cristo Giudice sulla giustizia terrena.

1 Testi dì riferimento per lo studio iconografico del Giudizio Universale sono: J. Baschet, Les justices de l’audelà. Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVVe siècle), Ecole Frangaise, Rome 1993; Y. Christe, Il Giudizio Universale nell’arte del Medioevo, Jaca Book, Milano 2000.

2 E. Male, Le origini del gotico: l’iconografia medievale e le sue fonti, Jaca Book, Milano 1986, p. 19.

3 L’apparizione di Cristo in cielo nel giorno del Giudizio è cosi annunciata nei Vangeli: «Et tunc paravit signum Filii hominis in caelo et tunc planget omnes tribus terrae et videbunt Filium hominis venientem in nubibus caeli cum virtute multa et maiestate, et mittet angelos suos cum tuba et voce magna et congregabunt electos eius a quattuor ventis a summis caelorum usque ad terminos eorum» («Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo, tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi del cielo con gran potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli che, con tromba dallo squillo potente, raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli»): Matteo, 24, 30-31 ; «Et tunc videbunt Filium hominis venientem in nubibus cum virtute multa et gloria et tunc mittet angelos suos et congregabit electos suos a quattuor ventis a summo terrae usque ad summum caeli» («Allora si vedrà il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi, con grande potenza e gloria. Allora manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo»): Marco, 13,26-27.

4 «Et qui sedebat similis erat aspectui lapidis iaspidis et sardini et iris erat in circuitu sedis similis visioni smaragdinae» («Colui che vi sedeva era simile nell’aspetto alla pietra di diaspro e disardio e il trono era circondato da un’iride simile allo smeraldo»): Apocalisse, 4,3; «Et super firmamentum quod erat imminens capiti eorum quasi aspectus lapidis sapphyri similitudo throni et super similitudinem throni similitudo quasi aspectus hominis desuper. Et vidi quasi speciem electri velut aspectum ignis intrinsecus eius per circuitum a lumbis eius et desuper et a lumbis eius usque deorsum vidi quasi speciem ignis splendentis in circuitu velut aspectum arcus cum fuerit in nube in die pluviae hic erat aspectus splendoris per gyrum» («E sul firmamento, che era sopra le loro teste, apparve come una pietra di zaffiro, in forma di trono, e su questa specie di trono, in alto, una figura in sembianze d’uomo. Da quelli che parevano i suoi fianchi in su, era come un fulgore di metallo splendente, e dai suoi fianchi in giù, come una visione di fuoco, con tutt’intorno uno splendore, simile a quello dell’arcobaleno che appare tra le nubi in un giorno di pioggia»): Ezechiele, 1, 26-28.

5 «Haec quoque dixit Deus ad Noe et ad filios eius cum eo: Ecce ego statuam pactum meum vobiscum et cum semine vestro post vos et ad omnem animam viventem quae est vobiscum tam in volucribus quam in iumentis et pecudibus terrae cunctis quae egressa sunt de arca et universis bestiis terrae statuam pactum meum vobiscum et nequaquam ultra interficietur omnis caro aquis diluvi! neque erit deinceps diluvium dissipans terram. Dixitque Deus: Hoc signum foederis quod do inter me et vos et ad omnem animam viventem quae est vobiscum in generationes sempiternas arcum meum ponam in nubibus et erit signum foederis inter me et inter terram, cumque obduxero nubibus caelum apparebit arcus meus in nubibus et recordabor foederis mei vobiscum et cum omni anima vivente quae carnem vegetat et non erunt ultra aquae diluvii ad delendam universam carnem eritque arcus in nubibus et videbo illum et recordabor foederis sempiterni quod pactum est inter Deum et inter omnem animam viventem universae carnis quae est super terram. Dixitque Deus: Noe hoc erit signum foederis quod constimi inter me et inter omnem carnem super terram» («Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli: Ecco, io concludo il mio patto con voi e i vostri discendenti che verranno dopo di voi, e con tutti gli esseri animati che sono tra voi: uccelli, armenti e tutte le bestie che sono con voi e sono usciti dall’arca, e con ogni specie di animali terrestri. Stabilisco la mia alleanza con voi, in nessun modo la carne sarà più distrutta dalle acque del diluvio, né ci sarà un diluvio a sconvolgere la terra. Poi Dio disse: Questo sarà il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per le generazioni future. Io pongo il mio arco nelle nubi e servirà di segno del patto fra me e la terra. Quando accumulerò le nubi sopra la terra e si vedrà l’arcobaleno nelle nubi, allora io mi ricorderò del patto fra me e voi e tutti gli esseri viventi di ogni specie, e le acque non diventeranno più un diluvio per distruggere ogni carne. Quando l’arco sarà nelle nubi, io lo vedrò e mi ricorderò del patto perpetuo fra Dio e ogni essere vivente, di qualunque specie, che è sulla terra. E Dio disse a Noè: Questo è il segno del patto che stabilisco fra me e ogni carne che è sulla terra»): Genesi, 9, 8-17.

6 «Dum haec autem loquuntur Iesus stetit in medio eorum et dicit eis: Pax vobis ego sum, nolite timere. Conturbati vero et conterriti existimabant se spiritum videre. Et dixit eis: Quid turbati estis et cogitationes ascendunt in corda vestra? Videte manus meas et pedes, quia ipse ego sum. Palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet sicut me videtis habere. Et cum hoc dixisset ostendit eis manus et pedes»: Luca 24, 36-40; «… nisi videro in manibus eius figuram clavorum et mittam digitum meum in locum clavorum et mittam manum meam in latus eius non credam»: Giovanni, 20, 25.

7 «Vos autem estis qui permansistis mecum in temptationibus meis, et ego dispono vobis, sicut disposuit mihi Pater meus regnum, ut edatis et bibatis super mensam meam in regno et sedeatis super thronos iudicantes duodecim tribus Israhel»: Luca, 22, 28-30.

8 «Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua et omnes angeli cum eo, tunc sedebit super sedem maiestatis suae et congregabuntur ante eum omnes gentes et separabit eos ab invicem sicut pastor segregat oves ab hedis et statuet oves quidem a dextris suis hedos autem a sinistris. Tunc dicet rex his qui a dextris eius erunt: Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. Esurivi enim et dedistis mihi manducare, sitivi et dedistis mihi bibere, hospes eram et collexistis me, nudus et operuistis me, infirmus et visitastis me, in carcere eram et venistis ad me. Tunc respondebunt ei iusti dicentes: Domine, quando te vidimus esurientem et pavimus sitientem et dedimus tibi potum? Quando autem te vidimus hospitem et colleximus te aut nudum et cooperuimus? Aut quando te vidimus infirmum aut in carcere et venimus ad te? Et respondens rex dicet: Illis amen dico vobis quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis mihi fecistis. Tunc dicet et his qui a sinistris erunt: Discedite a me maledirti in ignem aeternum qui paratus est diabolo et angelis eius. Esurivi enim et non dedistis mihi manducare; sitivi et non dedistis mihi potum; hospes eram et non collexistis me, nudus et non operuistis me, infirmus et in carcere et non visitastis me. Tunc respondebunt et ipsi dicentes: Domine, quando te vidimus esurientem aut sitientem aut hospitem aut nudum aut infirmum vel in carcere et non ministravimus tibi? Tunc respondebit illis dicens: Amen, dico vobis quamdiu non fecistis uni de minoribus his nec mihi fecistis. Et ibunt hii in supplicium aeternum, iusti autem in vitam aeternam» («Quando verrà il Figlio dell’Uomo nella sua maestà con tutti gli angeli, si assiderà sul trono della sua gloria: e tutte le nazioni saranno radunate davanti a lui, ma egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti vedemmo affamato e ti demmo ristoro; assetato e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti alloggiammo, o nudo e ti vestimmo? Quando ti vedemmo infermo o carcerato e siam venuti a visitarti? E il re risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me. Infine dirà anche a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli angeli suoi. Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi albergaste; nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi visitaste. Allora anche questi gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato, o assetato, o pellegrino, o nudo, o infermo, o carcerato, e non t’abbiamo assistito? Ma egli risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che non lo avete fatto ad uno di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E costoro andranno all’eterno supplizio, i giusti invece alla vita eterna»): Matteo, 25, 31-46.

9 «Et mittet angelos suos cum tuba et voce magna et congregabunt electos eius a quattuor ventis a summis caelorum usque ad terminos eorum»: Matteo, 24, 31; «Et tunc mittet angelos suos et congregabit electos suos a quattuor ventis a summo terrae usque ad summum caeli»: Marco, 13,27.

10 Cfr. I Corinzi, 15,51-52: «Ecce, mysterium vobis dico, omnes quidem resurgemus, sed non omnes inmutabimur. In momento, in ictu oculi, in novissima tuba canet enim et mortui resurgent incorrupti et nos inmutabimur» («Ecco vi svelo un mistero: noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Squillerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati»).

11 Male, Le origini del gotico cit., p. 362. La resurrezione nel giorno del Giudizio di uomini e donne con i corpi dell’età di trent’anni viene testimoniata da Onorio Augustodunense (Speculum Ecclesiale, in Migne, Patrologia Latina [d’ora in avanti citata come PL], CLXXII, col. 1085): «Resurgent autem omnes mortui ea aetate et mensura qua Christus resurrexit, scilicet XXX annorum». L’età perfetta, ovvero i trent’anni attribuiti a Cristo, deriva invece da un passo di Agostino (Cantra Faustum, XII, 14; PL, XLII, col. 262) che associa l’età di Gesù ai trenta cubiti di altezza dell’Arca di Noè: «Quod eius altitudo triginta cubitis surgit, quem numerum decies habet in trecentis cubitis longitudo: quia Christus est altitudo nostra, qui triginta annorum aetatem gerens doctrinam evangelicam consecravit…».

12 «Et Dominus in aeternum permanet / Paravit in iudicio thronum suum / Et ipse iudicabitorbem terrae in aequitate / Iudicabit populos in iustitia»; Salmi, 9, 8-9.

13 «Et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum et conversus vidi septem candelabra aurea et in medio septem candelabrorum similem Filio hominis vestitum podere et praecinctum ad mamillas zonam auream»: Apocalisse, 1, 12-13.

14 «Et cum aperuisset quintum sigillum vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium quod habebant, et clamabant voce magna dicentes: Usquequo Domine sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de his qui habitant in tera?»: Apocalisse, 6, 9-10.

15 Cfr. Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed. italiana a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, pp. 75-79.

16 Ancora oggi, nella liturgia del 28 dicembre, giorno in cui il calendario ricorda i santi Innocenti, l’antifona d’ingresso recita: «I santi Innocenti furono uccisi per Cristo, e in cielo lo seguono, Agnello senza macchia, cantando sempre: Gloria a te, o Signore».

17 «Et datae sunt illis singulae stolae albae et dictum est illis ut requiescerunt tempus adhuc modicum donec impleantur conservi eorum et fratres eorum qui interficiendi sunt sicut et illi»: Apocalisse, 6, 11.

18 Di quest’ultimo non è più leggibile il nome, ma in base alla tradizione iconografica si può con certezza affermare la sua identità. L’immagine è un richiamo ai passi evangelici di Matteo (22, 31-32): «De resurrectione autem mortuorum non legistis quod dictum est a Deo dicente vobis? Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob, non est Deus mortuorum sed viventium»
(«Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto ciò che Dio vi disse? Io sono il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, non è il Dio dei morti, ma dei vivi»); Marco (12, 26- 27): «De mortuis autem quod resurgant non legistis in libro Mosi super rubum quomodo dixerit illi Deus inquiens: Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob? Non est deus mortuorum sed vivorum» («Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto nel libro di Mosè, nell’episodio del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti, ma dei vivi»); Luca (13, 28): «Ibi erit fletus et stridor dentium, cum videritis Abraham et Isaac et Iacob et omnes prophetas in regno Dei, vos autem expelli foras» («Là vi sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi cacciati fuori»),

19 «Factum est autem ut moreretur mendicus et portaretur ab angelis in sinum Abrahae»: Luca, 16, 22.

20 Cfr. PL, XXXV, col. 1350.

21 Cfr. Summa Theologiae, q. 69, a. 4.

22 A. Simon, Abramo, in Enciclopedia delVArte Medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2000, voi. I, pp. 58-60; J. Baschet, Anima, ivi, pp. 804-815.

23 «Vidit igitur mulier quod bonum esset lignum ad vescendum et pulchrum oculis aspectuque delectabile et tulit de fructu illius et comedit deditque viro suo qui comedit. Et aperti sunt oculi amborum cumque cognovissent esse se nudos consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata» («La donna intanto aveva osservato che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole all’occhio e desiderabile per acquistare il sapere. Colse quindi il frutto, ne mangiò e ne dette anche a suo marito che stava con lei ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di tutt’e due e s’avvidero che erano nudi; cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture»): Genesi, 3, 6-7.

24 «Vincenti dabo edere de Ugno vitae quod est in Paradiso Dei mei»: Apocalisse, 2, 7.

25 C. Frugoni, Alberi (in paradiso voluptatis), in Cambiente vegetale nell’Alto Medioevo. Spoleto, 30 marzo-5 aprile 1989, XXXVII settimana di studio del Centro Italiano di Studi sullAlto Medioevo, CISAM, Spoleto 1990, p. 730. «Il significato positivo della palma […] è rafforzato anche da un racconto contenuto nel Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo (cap. XX); durante la fuga in Egitto questo albero si china verso Maria offrendo i suoi frutti a lei e alla sacra famiglia esausta; il piccolo Gesù ordina poi all’albero di crescere anche nel paradiso celeste, per essere a disposizione dei santi»: ivi, p. 727 (cfr. 7 Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, pp. 86-87).

26 Relativamente alle contrapposizioni tra Arbor mala e Arbor bona scrive Chiara Frugoni: «[Nel Genesi] viene precisato che al centro dell’Eden sono l’Albero della Vita e l’Albero della scienza. La duplice proprietà di quest’ultimo introduce la nozione dell’esistenza del male, che si incunea nella vita appena iniziata, nell’opera perfetta di Dio. La flora del paradiso terrestre rispetto alla fauna e agli altri elementi, tutti neutri nella loro bontà, suggerisce immediatamente all’esegesi cristiana una interpretazione etico-simbolica; costringe e limita la riflessione entro un rapporto binario, nella rigida contrapposizione dell’Arbor bona e dell’Arbor mala, dell’Albero verde e dell’Albero secco, Chiesa e Sinagoga, Albero delle virtù, Albero dei vizi […]»: Frugoni, Alberi cit., pp. 730-731

27 «Iam enim securis ad radicem arborum posita est omnis ergo arbor quae non facit fructum bonum exciditur et in ignem mittitur»: Matteo, 3, 10.

28 La Visio Pauli, apocalisse giudaico-cristiana del III secolo, rappresenta il punto di partenza, insieme alla Apocalisse di Pietro (II secolo), per l’elaborazione del modello infernale nella tradizione cristiana. L’interpretazione del passo dello stesso san Paolo (II Corinzi, 12,2-4), in cui dichiara di essere stato rapito al terzo cielo, diede luogo a una diffusa letteratura sul viaggio dell’apostolo nell’oltretomba. Celebre è la testimonianza di Dante (Inferno, II, 28-30), che accenna al viaggio dell’apostolo nell’aldilà. Sulla fortunata diffusione di questo testo si veda T. Silverstein, Visiones et revelaciones Sancti Pauli: una nuova tradizione di testi latini nel Medio Evo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1974.

29 «Adhuc ea loquente vidi tres venientes a longe pulcros valde speciae Christi, et imagines eorum fulgentes, angelos ipsorum, et interrogavi: Qui sunt hii, domine? Et dixit mihi: Nescis eos? Et dixi: Nescio, domine. Et respondit: Hii sunt patres populi, Abraham, Hysaac, et Iacob. Et venientes iuxta salutaverunt me et dixerunt: Ave, Paule, dilectissime dei et hominum; beatus est qui vim sustinet propter dominum. Et respondit mihi Abraham dixit: Hic est filius meus Hysaac, et Iacob dilectissimus meus, et cognovimus dominum et secuti sumus eum; beati omnes qui crediderunt verbo tuo, ut possint hereditare regnum dei per laborem, abrenunciacione et sanctificatione et humilitate et caritate et mansuetudine et recta fide ad dominum; et nos quoque habuimus devocionem ad dominum quem tu praedicas testamento ut omnes anime credencium ei adsistamus et ministremus sicut patres ministrant filiis suis»: Visio Pauli, in M.R. James, Apocrypha Anecdota. A Collection of Thirteen Apocryphal Books and Pragments, Cambridge University Press, Cambridge 1893, p. 38. Il brano citato si riferisce alla visione del paradiso. La traduzione italiana è tratta da Apocalissi Apocrife, a cura di A.M. Di Nola, Tea, Milano 1993, pp. 87-88.

30 «Beati qui lavant stolas suas ut sit potestas eorum in Ugno vitae et per portas intrent in civitatem»: Apocalisse, 22, 14.

31 San Leonardo aveva ottenuto dall’autorità laica il privilegio di chiedere la liberazione dei prigionieri, e la sua fama fu così grande che i carcerati, ovunque lo invocassero, vedevano le loro catene rompersi miracolosamente. Per questo motivo è raffigurato con delle catene e ceppi in mano. Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. VII, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1966, coll. 1198-1208.

32 Giuseppe Scavizzi, nell’articolo Nuovi affreschi del Quattrocento campano (in «Bollettino d’Arte» [1962], pp. 196-202), pubblicato poco tempo dopo la scoperta dell’affresco, riconosceva nella schiera dei santi Caterina, Lorenzo o Leonardo, san Francesco o Domenico, san Giacomo e san Benedetto. Ma il secondo santo raffigurato è senza dubbio Leonardo, ha la catena ben visibile, non una graticola. Il terzo santo raffigurato non è Francesco (non ha le stimmate), e nemmeno Domenico, poiché l’abito domenicano prevede la tunica e lo scapolare con cappuccio bianchi e mantello con cappuccio nero, mentre il santo dell’affresco indossa il saio marrone, come quello francescano; esso inoltre tiene in mano un libro, attributo che caratterizza Antonio da Padova, francescano.

33 Ivi, p. 196.

34 E Navarro, Ferrante Maglione, Alvaro Pirez d’Evora ed alcuni aspetti della pittura tardogotica a Napoli e in Campania, in «Bollettino d’Arte», n. 78 (1993), p. 75, nota 38.

35 L’ipotesi è riportata da Francesco Abbate in Id., I. Di Resta, he città nella storia d’Italia. Sant’Agata dei Goti, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 48, e dallo stesso autore in Affreschi tardogotici a Maddaloni, in I segreti del Medioevo. Gli affreschi di Maddaloni, a cura di M.R. Rienzo, Maddaloni 1992, p. 9. In entrambi i saggi, a causa di un refuso, si parla di papa Urbano IV (1261-1264) invece che di papa Urbano VI.

36 Cfr. Abbate, Affreschi tardogotici a Maddaloni, cit., p. 9.

37 La parola «Urbanus» è cambiata in «Julianus» con l’apposizione iniziale della J, mantiene le lettere u, a, n e il segno abbreviativo us, mentre le lettere l ed i vengono sovrapposte, con opportune cancellazioni, surei. Alla parola papa viene cancellata la p iniziale, la a finale viene cambiata in o a cui segue ex novo «stata» («apostata»). Lo studio della didascalia è stato effettuato grazie alla documentazione fotografica precedente il restauro dell’affresco, concessa gentilmente dal parroco della chiesa Franco Iannotta.

38 Dante, Inferno, XXVIII, vv. 22-63.

39 Cfr. M. Jacoviello, Un papa napoletano nello Scisma d’Occidente: Bartolomeo Frignano (1378-1389), in «Campania Sacra», 21 (1990), pp. 72-95; S. Fodale, La politica napoletana di Urbano VI, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1973.

40 Seguo sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota 39).

41 Cfr. nota 39.

42 Si vedano sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota 39).

43 Cfr. G. Ortalli, «… pingantur in Palatio…». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Jouvence, Roma 1979.

44 Cfr. J. Baschet, Lieu sacré, lieu d’images. Les fresques de Bominaco (Abruzzes, 1263). Thèmes, parcours, fonctions, Ecole Francaise de Rome, Rome 1991, p. 74. Il ruolo che l’arcangelo Michele ricopre è il medesimo del dio romano Mercurio, che guidava le anime dei defunti agli inferi. San Michele fu identificato come santo psicopompo (accompagnatore di anime) nei primi secoli del cristianesimo, quando la Chiesa propagandò il suo culto tra i Gallo-romani devoti a Mercurio; il culto dell’arcangelo prese il sopravvento su quello del dio pagano e la figura di Michele assunse gli attributi che erano stati propri di Mercurio: Male, Le origini del gotico cit., p. 363.

45 Giordano da Pisa, Prediche recitate in Firenze dal 1303 al 1306 ed ora per la prima volta pubblicate, a cura di C. Moreni, Magheri, Firenze 1831, vol. II, Predica LXV, pp. 268-270.

46 Dei vizi sono visibili solo le iscrizioni relative alla terza figura (gula) e alla settima [acidia) e parzialmente alla prima (…rb… per superbia).

47 La rappresentazione delle virtù nell’atto di schiacciare i vizi capitali fu tipica dell’arte romanica francese. Molto simile alla psicomachia del Giudizio Universale della chiesa della SS. Annunziata è la raffigurazione scultorea dello stesso tema presente sull’esterno della cattedrale di Strasburgo (c. 1280).

48 La teorizzazione delle quattro virtù cardinali appartiene al mondo antico greco e romano: sviluppata da Platone (nella Repubblica) e da Cicerone (De officiis), fu trasmessa al Medioevo attraverso sant’Ambrogio (De officiis ministrorum, I, 50; PL, XVI, col. 106). Le tre virtù teologali sono invece una creazione cristiana: san Paolo indica la fede, la speranza e la carità quali virtù specificamente cristiane (I Tessalonicesi, 1, 3; I Corinzi, 22, 13). Proprio la differenza di origine dei due gruppi portò spesso alla loro rappresentazione iconografica separata. Solo a partire dal XII secolo vennero a costituire un settenario di virtù. Ruolo determinante per lo sviluppo del tema fu la Psychomachia di Prudenzio (V secolo), poema allegorico in cui sono descritte le battaglie tra virtù e vizi, tutti personificati da figure femminili. Cfr. A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtutes and Vices in Mediaeval Art. From Early Christian Times to the Thirteenth Century, The Warburg Institute, London 1939, rist. Kraus, Nendeln 1968, in particolare pp. 10, 16-17, 38-43.

49 La didascalia è errata: sacrilegius sta per sacrilegus.

50 II falso testimone potrebbe – per il contrappasso che associa al peccato la punizione mediante l’organo che ha partecipato all’azione peccaminosa – essere anche appeso per la lingua, ma in questo caso si confonderebbe con il bestemmiatore a cui è toccata questa sorte.

51 Cito il testo in volgare tradito dal manoscritto Magliabechiano CI. XXXVIII, 127 (XIV secolo) pubblicato da P. Villari, Antiche leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, in «Annali delle università toscane», 8 (1886), pp. 77-80, citazione a p. 78.

52 Cfr. Ortalli, «…pingantur in Palatio…» cit. L’analogia tra pittura infamante e rappresentazione dei condannati alle pene eterne è sottolineata da Chiara Frugoni: «Il potere delle immagini non si limitava all’ambito della fede: dalla seconda metà del Duecento, in caso di contumacia, i traditori e i falsari cominciarono ad essere dipinti bruciati, più spesso impiccati a testa in giù, anche sui muri dei più importanti edifici pubblici comunali, con il corredo di epigrafi che indicavano il nome del reo e lo coprivano di insulti. Una punizione particolarmente efficace la pittura infamante, perché coinvolgeva nella vergogna e nella riprovazione altrui tutte le persone con le quali il condannato per immagine aveva rapporti. E di nuovo a segnalare lo scambio continuo fra realtà, immagine dipinta, religiosa e laica, ricordo la sequenza degli impiccati, uomini e donne, alcuni a testa in giù, nell’Inferno della Cappella Scrovegni a Padova di Giotto, effigiati secondo la prassi della pittura infamante»: A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 86-87.

53 Cfr. Apocalisse, 20, 1-2: «Et vidi angelum descendentem de caelo habentem clavem abyssi et catenam magnam in manu sua, et adprehendit draconem serpentem antiquum qui est diabolus et Satanas et ligavit eum per annos mille» («Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo, tenendo in mano la chiave dell’abisso e una grande catena. Egli afferrò il dragone, l’antico serpente, che è il diavolo, Satana, e lo incatenò per mille anni»).

54 Proprio vicino ai piedi di Satana vi è una iscrizione illeggibile:…vane ene gad…; e sembrerebbe, ma l’affresco è molto rovinato, che lo stesso demone stia schiacciando sotto i propri artigli un altro dannato.

55 Le Visioni di santa Francesca Romana furono scritte in dialetto romanesco nel XV secolo dal prete Giovanni Mariotti, confessore di Francesca; il testo riporta le visioni dell’aldilà avute dalla santa (morta il 9 marzo 1440) nel corso della propria esistenza. Riporto in questa sede brani tratti dall’edizione di M. Pelaez, Visioni di santa Francesca Romana, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XIV (1891), in particolare pp. 371-373.

56 Ivi, p. 380. La visione dell’inferno di santa Francesca Romana riporta anche l’immagine di un enorme Satana legato con catene infuocate, ma questa immagine, presente nel Giudizio di Sant’Agata de’ Goti, è assai diffusa nelle rappresentazioni dell’inferno medievali. Non si intende in questa sede ipotizzare una stretta relazione tra l’affresco della chiesa della SS. Annunziata e le Visioni della santa, quanto piuttosto segnalare due testimonianze di differente natura – una iconografica, l’altra letteraria – che ci hanno tramandato in diversa forma elementi identici dell’immaginario medievale.

57 II sodomita punito allo spiedo compare anche nel mosaico del Battistero di S. Giovanni a Firenze, a Bologna in S. Petronio, a Padova nella Cappella degli Scrovegni, a Pisa nel Camposanto, ed anche in questi casi non è indicata in modo specifico la sua colpa. Santa Francesca Romana nelle sue visioni dell’inferno giustificava così la pena dei sodomiti: «[…] vide nello profondo et terribile luoco dello inferno, lanime delli miseri nomini et femine collo peccato sodomitico,
et collo peccato contra natura: le quale anime avevano grannissimo cruciato, et in quello muodo et forma che avevano operato tale scelerato vitio, in quello medesmo muodo li demonii operavano con esse anime de homini et de femine. Et puoi li demonii pigliavano le diete misere anime, et con pali de ferro ad muodo de granni spiti infocati, spitavano et sfonnavano le dolorose anime incomensando dalla parte de socto, et regessivano li dicti pali alla bocha de ciasche anima…»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., pp. 375-376.

58 Le pene purificatrici devono avere luogo nel tempo che intercorre tra il giudizio particolare (dopo la morte) e quello finale, dopo il quale non ci sarà che inferno o paradiso (Agostino, De civitate Dei, XXI, 13; PL, XLI, col. 728). Per san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, suppl., q. 70 ter e 71) la misura e la durata della pena sono in proporzione al peccato, ma possono essere mitigate dai suffragi della Chiesa. La pena maggiore per le anime del purgatorio è il rinvio della visione di Dio.

59 «Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, / la donna ch’io avea trovata sola / sopra mevidi, e dicea: – Tiemmi, tiemmi! / Tratto m’avea nel fiume infin la gola, / e tirandosi me dietro sengiva / sovresso l’acqua lieve come scola. / Quando fui presso a la beata riva / Asperges me sì dolcemente udissi, / che noi so rimembrar, non ch’io lo scriva. / La bella donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi»: Purgatorio, XXXII, w. 91-102.

60 La tradizione prevede due settori per il limbo: il limbo dei bambini non battezzati e morti macchiati del peccato originale, e il limbo dei Padri, quest’ultimo chiuso dopo la discesa di Cristo agli inferi e la liberazione di tutti coloro che vi risiedevano.

61 II tema è rappresentato nel santuario della Madonna dei Bisognosi a Pereto (L’Aquila), nella chiesa di S. Maria in Foro Claudio a Ventaroli (Caserta), nella chiesa di S. Francesco a Leonessa (Rieti), nella cattedrale di Sermoneta (Latina), e in frammenti nella chiesa di S. Maria Assunta ad Assergi (L’Aquila). Tutti gli affreschi risalgono al XV secolo. Sull’affresco di Pereto si vedano Baschet, Les Justices cit., pp. 380-383, 660-661; A. Calvani, Santuario della Madonna dei Bisognosi, Roma 1980. Per gli affreschi di Leonessa, Pereto e Sermoneta cfr. J. Baschet, I sette peccati capitali e le loro punizioni nell’iconografia medievale, in C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, pp. 225-260, in particolare pp. 246-247. Sui cicli abruzzesi si vedano: E. Carli, Affreschi benedettini del secolo XIII in Abruzzo, in «Le arti», 1 (1938), pp. 442-463; G. Rasetti, Il Giudizio universale in arte e la pittura medievale abruzzese, Tempo nostro, Pescara 1935.

62 Giordano da Pisa, Prediche inedite (dal ms. Laurenziano. Acquisti e Doni 290), a cura di C. Iannella, ETS, Pisa 1997, pp. 52-53.

63 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, Editrice fiorentina, Pistoia 1934, voi. I, p. 98.

64 Ibid.

65 Riporto gli indici delle Rubriche del Confessionale, che si definisce come un manuale, un prontuario per i confessori meno esperti («Simpliciores et minus expertos confessores de modo audiendi confessiones informare cupiens. Aliquid in hoc tractatu ad horum instructionem sub compendio posui»): «Rubrice prime partis: I De admnotionibus generalibus; II De luxuria; III De avaritia; IV De restitutionibus faciendis; V De superbia; VI De accidia; VII De invidia; VIII De ira; IX De gula; X De quibusdam peccatis lingue et peccato de mendaciis; XI De giuramento et periuro; XII De murmure et detractione susurratione et derisione; XIII De sortilegiis; XIIII De scandalo; XV De votorum violatione. […] Rubrice secunde partis: I Ad episcopos et alios prelatos; II Ad clericos et beneficiatos; III Ad sacerdotes parrochiales et eorum vicarios et audientes confessiones; IV Ad religiosos et claustrales; V Ad iudices; VI Ad advocatos et procuratores; VII Ad medicos; VIII Ad doctores et magistros; IX Ad principes et alios nobiles; X Ad coniugatos; XI Ad mercatores et burgenses; XII Ad artifices et mechanicos; XIII Ad rusticos et agricolas; XIV Ad laboratores» (i brani qui citati sono traditi dal manoscritto della Biblioteca Antoniana di Padova, Cod. 367, scaff. XVII, c. 303r, e in parte pubblicati da J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977, p. 149). Per la tradizione manoscritta e a stampa di questo trattato si veda T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. II, ad S. Sabinae Ecclesiam [poi Istituto storico domenicano], Romae 1975, pp. 433-436; voi. IV, Istituto storico domenicano, Roma 1993, pp. 151-152. Per quanto riguarda gli studi sui manuali per confessori si vedano R. Rusconi, Ordinate confiteri. La confessione dei peccati nelle Summae de Casibus e nei manuali per confessori (metà XII inizio XIV secolo), in L’aveu: antiquité et moyen àge, Collection de l’École Francaise de Rome, Rome 1986, pp. 297- 313; P Michaud-Quantin, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen Age, Nauwelaerts, Louvain-Montreal 1962; L. Boyle, The Summa Confessorum of ]ohn of Freiburg and the Popularization of the Moral Teaching of Saint Thomas and Some of bis Contemporaries, in St. Thomas Aquinas, 1274-1974. Commemorative Studies, a cura di A. Maurer e E. Gilson, Pontificai Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1974, voi. I, pp. 245-268.

66 Scrive Jacques Le Goff che «I manuali dei confessori sono dei buoni testimoni della presa di coscienza della professione da parte di coloro che la esercitano, poiché riflettono la pressione del loro ambiente sulla Chiesa, e sono stati, di ritorno, uno dei principali mezzi di formazione della coscienza professionale degli uomini del Medioevo, a partire dal secolo XIII»: Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante cit., p. 140.

67 Si veda: Pane e potere. Istituzioni e società in Italia dal Medioevo all’Età moderna, a cura di V Franco, A. Lanconelli, M.A. Quesada, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991.

68 «Anche vide essa beata ancilla de Cristo le dolorose anime delli iudici, li quali dierono false sententie: erano messe in uno tino grande de oro & de argento liquefacto. Et li demonii con certi incini infocati acerbissimi, colli quali cacciavano le meschine anime, et gittavanolle ad altri demonii sopre de ciò deputati in forma de leoni, & da essi erano crudelissimamente laniate, tucte tenendo le mitre infocate nelli loro capi»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., pp. 388-389.

69 La malattia era vista come una metafora del peccato ed il malato, prima di essere curato, doveva essere confessato, comunicato e solo dopo queste due operazioni poteva essere accudito dal personale dell’ospedale; si cercava in sostanza di curare la salvezza dell’anima più che la salute dei corpi. Cfr. J. Agrimi, C. Crisciani, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 207-208.

70 «… vide le misere anime delli medici, le quale stavano nello luoco de socto [nella parte più profonda dell’inferno], & tenevano li piedi in alto et li loro capi a basso. & li demonii con certi grappi le stracciavano duramente, et stavano infra certe piaste de fierro infocate dalle quale avevano grande tormento; et tale pena avevano per li libri che avevano usati, et per lo homicidio commesso, che per salvare la matre, non curano de occidere la creatura ne l’utero materno. Et anche

delli homicidii facti malitiosamente, anche per la transgressione ecclesiastica, che medicaro li infirmi prima che fussino confessati & reconciliati. Ma, per lo peccato della ignorantia, li erano cacciati li occhi dalli demonii, & per la vana speransa che abero de sanare li infermi, et però non li fecero comunicare, né confessare, li era cacciato lo core, & era dato ad certi demonii in forma de cani dalli quali era molto stracciato. Per lo peccato pomposo dello vestire erano copierti dalla fiamma dello fuoco non lucente ma tenebroso, come è dicto nello principio dello presente tractato. Ma per lo peccato della cupidità li era messo nelle loro gole oro con argento liquefacto, sempre blasfemando, & ciascheuna delle diete misere anime aveva dallo demonio tale improperio: Anima dolente che si stata così accecata, lo tio studio fetente, per lo quale te si avenenata, ate facta ingannare alla toa sensualità, or sta in questi tormenti, & non tenne lamentare»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., p. 396.

71 «Vide anche essa beata ancilla de Cristo le poverecte anime delli speciali, le quale avevano pena per la ignorantia & per la cupidità, corno è sopra dicto delli medici. Anche erano messe in uno tino pieno de molta immunditia, la quale pena avevano per le false medicine date & non bene facte. Et li demonii con certi grappi le cacciavano dello dicto tino con grande detratio; anche certi demonii li cacciavano lo core, & puoi lo davano ad altri demonii in forma de cani arrabiati, & da essi era stracciato. & ciascheuna delle diete meschine anime aveva dallo demonio tale improperio: O anima maledecta che te si lassata ingannare, che non ai auto abedimento nello tuo molto malefare, pati pena & tormento nello fuoco ad cruciare»: ivi, p. 397.

72 «Anche vide essa beata Francesca dieta le misere anime delli tavernari, le quale stavano nello luoco de socto; & erano messe in tre tini, delli quali uno ne era pieno de giaccio, l’altro de vino ardente, & l’altro pieno de aceto & de altre cose. Et per lo peccato de mectere l’acqua nello vino era messa ciascheuna delle diete misere anime nello tino dello giaccio […] et molto tormentata li era messo dalli demonii oro con argento liquefacto, la quale pena aveva per cupidità, et erali dicto tale improperio: O anima sconsolata che te si lassata desertare, per la toa golisitate te si facta ingannare, colli demonii te stai con pene & tormenti che non mancano mai»: ivi, p. 397.

73 «Vide anche essa beata Francesca le misere anime delli macellari, le quale avevano grandi tormenti, ma in particularità era posta la misera anima nella belancia, da una parte tenendo alla gola molti uncini ferrei infocati, pendendo essa meschina anima nelli incini; & dall’altra parte della belancia era grande peso, ad muodo de macera: & tale pena avea per li peccati generali che commise. Anche li demonii li davano per la faccia ad muodo de trippe fracide, piene de molte miserie & pucce & de orrebile abominatione. La quale pena li era data perché vendeva la carne trista per bona, cioè lo peco per lo castrone & simili fraudationi. Anche li demonii la incicchiavano [tagliavano] sopre la bancha ad muodo de carne per fare le salcicce, et tale pena li era data per l’altri peccati che commise in tale arte dello maciello, & aveva dallo demonio tale improperio: Anima che si trista, tanto ai sequitato lo mundo, non tenne si retracta, lo honore de Dio ai desfacto,
sitte aducta ad tale passo che non tenne puoi aiutare, ora pati pene & tormenti al presente & sempre mai»: ivi, p. 398.

74 Visio Thurkilli, relatore, ut videtur, Radulpho de Coggeshall, a cura di P.G. Schmidt, Teubner, Leipzig 1978, p. 28.

75 Ivi, pp. 22-27.

76 L’Anonimo del Codice bolognese 2751, in Imitazioni dantesche di quattrocentisti meridionali, a cura di A. Altamura e P. Basile, Società editrice napoletana, Napoli 1976, pp. 7-27.

77 Ricordo in proposito il pensiero di Bernardino da Siena che, predicando su «come debba ministrare iustizia chi ha offizio», individua tra i nemici della giustizia, che i prìncipi debbono sconfiggere, Afalsus iudex in consistono, ilfraudulentus mercator in foro, il mendax in artifitio: Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, Rusconi, Milano 1989, pp. 710, 716.

78 II tema della giustizia e dei suoi diversi esiti è stato tradotto anche in immagini, raffigurato su un capitello della torre della Ghirlandina, a Modena. In questo compaiono un giudice giusto, incoronato da un angelo; un giudice iniquo nell’atto di ricevere denaro da un ricco; un giudice tentato, fiancheggiato da un uomo che gli offre delle monete (l’iscrizione recita: Offert pecuniam per falsa sententia) e da un uomo povero – è scalzo – che si dispera (stringe il pugno sulla guancia) a causa del giudice corrotto: A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 250-254.

79 A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Jouvence, Roma 1987, pp. 53-54.

80 San Bernardino da Siena, ad esempio, accusava i notai di fare da sensali agli usurai: «[L’usuraio] agevolmente la guadagna; grande utilità multiplica ed è guadagno certano; guadagna con poca fatica; niente ve ne dura. Chi la dura? El notaio che fa el contratto usuraio; el sensale»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., vol. I, p. 82.

81 Cfr. J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 41-58.

82 C. Rivals in II mulino, L’avventura del pane quotidiano, in «Storia e Dossier», n. 7 (1987),
pp. 47-49.

83 L. Chiappa Mauri, ivi, pp. 61-64.

84 C. Rivals, ivi, pp. 47-49.

85 Cfr. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1999, p. 138, e ripreso anche da C. Rivals cit., nota 34.

86 Cfr. Pane e potere cit., pp. 31-33.

87 Cfr. H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 252-262.

88 Cfr. Visio Thurkilli cit., pp. 26-27.

89 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, cit., pp. 315-316.

90 L’Anonimo del Codice bolognese 2751, cit., p. 22.

91 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., pp. 79-80. Nel Vangelo di Matteo (21, 12-13) coloro che vengono cacciati dal tempio sono i mercanti ed i cambiavalute, accusati di essere ladri. In questa predica Bernardino da Siena identifica le due categorie professionali semplicemente come usurai.

92 Per la condanna del peccato di usura si veda Le Goff, La borsa e la vita cit., pp. 11-77.

93 La lunga chioma bionda è uno dei principali attributi della Maddalena; san Bernardino da Siena in più occasioni stigmatizza la capigliatura della donna come principale mezzo di istigazione al peccato: «[…] Primo peccato ch’ella commise si è ne’ fatti del mondo, cioè mostresi di piacere più al mondo che a Dio, e di parere più bella al mondo che a Dio […] modo di peccare si fu co’ capegli. Imperò ch’ell’aveva così bel capo e sempre avea che fare di stare a imbiondare, e di stare al sole a seccare: e nulla cosa di vanità non lassa di fare»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari inedite. Virente 1424-1425 – Siena 1425, a cura del P Dionisio Pacetti O.F.M., Cantagalli, Siena 1935 [Quaresimale di Firenze, 1425], voi. II, pp. 352-353; «In che Maria Maddalena era peccatrice […] La prima cosa, collo imbrattare el volto. […] El secondo, colla bocca, in baciare, in cantare, in ragionare e parlare vanamente e disonestamente. El terzo, co’ capelli, tanto belli, che aggiugnevano infino a terra. La maggiore vanità che comunque abbi la donna sono e capelli. Adunque è maggior peccato. Ogni capello era una catena a tirare lei e l’altre allo inferno. Peccato grande!»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., p. 144; lo stesso Bernardino spiega la metamorfosi della Maddalena dopo l’incontro con Cristo: «con molte lagrime, piangendo, cominciò a darsi per la casa, e ardere e capelli vani che forse si riteneva, e gittare via la biacca e gli altri imbratti e vanità, e piangendo tutti e peccati fatti dal primo dì infino all’ultimo…»: ivi, p. 148.

Segrete

Segrete

Nello stupendo scenario medioevale di Sant’Agata de’ Goti, non poteva mancare un riferimento alle antiche torture dei tempi dell’Inquisizione, il proprietario di Silver Petal Interiors ci ha detto.

All’interno del Centro storico, sotto l’antico palazzo Parisi, si trova un’impressionante serie di grotte costruite dall’uomo, comunicanti tra loro allsportnews1 Il proprietario, dopo una complessa ricerca sulle tecniche di tortura utilizzate anticamente dall’uomo e una laboriosa e minuziosa ricostruzione degli attrezzi, dei personaggi e delle macchine usate a quei tempi Vilma Mobilabonnemang (2021) – billigastemobilabonnemang.nu, tutto in misura reale, ha saputo creare uno scenario mistico e tetro al sado tempo stesso.

Una guida vi accompagnerà nel percorso e, immersi in questi anfratti di tufo, potrete visitare diverse stanze delle torture dove poter mirabilmente osservare come venivano inflitte le peggiori pene, per far confessare i malcapitati o per far espiare una condanna inflitta loro dagli inquisitori.

Agriturismi

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Cucina fatta di piatti della vecchia e nuova tradizione. “Atmosfera ottima, sembra di stare fra tanti amici e tutti i desideri sono soddisfatti.  Il proprietario, un eccellente personaggio, trova un buon consiglio per tutti …  e tutti sono contenti e felici, si va via soddisfatti, per questo  ci si torna volentieri“.

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Abside

Abside

Nel suo impianto architettonico, la chiesa della SS. Annunziata in Sant’Agata de’ Goti ha una particolarità: l’abside asimmetrica rispetto alla navata. Probabilmente non si tratta di un errore di progettazione, ma di una scelta teologica. Le piante delle antiche chiese, infatti, rappresentava no sempre il segno della croce, di cui l’abside era la parte più alta, dove in base al racconto evangelico di Giovanni (19, 30) era poggiato il capo reclinato di Cristo nel momento della morte. L’architetto del tempo, forse, inclinò la pianta dell’abside rispetto alla navata per rappresentare in modo plastico questo evento.

Questo spazio sacro era reso più accogliente o rivestendo le pareti con drappi di seta o affrescandole, anche per raccontare al popolo di Dio, per lo più illetterato, la storia della salvezza.

Grazie alla generosità di qualificate committenze, ciò è stato realizzato anche nella chiesa della SS. Annunziata, con affreschi di pregevole fattura che risalgono alla seconda metà del Trecento e ai primi anni del Quattrocento.

Si tratta di affreschi devozionali, raffiguranti, oltre al tema dell’Annunciazione, cui la chiesa è dedicata, figure di santi. In alcuni casi – particolarità che caratterizza l’impianto iconografico dell’abside -, ai ritratti dei santi sono affiancati riquadri di dimensioni ridotte che raffigurano episodi importanti – per lo più eventi miracolosi – della loro vita.

In alto, al centro dell’arco gotico, è possibile ricostruire l’immagine di un’Annunciazione attraverso i frammenti dell’angelo e della Vergine vestita di azzurro. Quando alla fine del Quattrocento vi fu collocato il polittico attribuito ad Angiolillo Arcuccio (oggi nella prima cappella a sinistra; fig. 88), la lettura del grande affresco fu irrimediabilmente compromessa dall’apertura di una grande finestra.

La monofora ricuperata e la parte bassa dell’abside furono in origine decorate con motivi geometrici, di cui, grazie ai lavori di restauro del 1977, sono emerse significative tracce. In seguito parte di queste decorazioni fu ricoperta da uno strato di intonaco per inserire nuovi e, per i contemporanei, più importanti affreschi.

Sullo spigolo sinistro dell’arco trionfale troviamo un piccolo ritratto di santo Stefano (fig. 44). Egli fu tra i primi sette diaconi nominati dagli apostoli e il primo martire della Chiesa. Si riconosce per la dalmatica, che è la veste liturgica del diacono, per la palma del martirio e, soprattutto, per le pietre conficcate sul capo, a ricordo della morte avvenuta per lapidazione. L’artista ha disposto le pietre quasi a forma di corona, forse alludendo al fatto che, secondo Iacopo da Varazze, «Stefano è un nome greco, che vuol dire corona […] Fu infatti una corona, cioè il primo, l’inizio dei martiri del Nuovo Testamento, corrispondente a quello che è Abele nel Vecchio Testamento […] È dunque una corona in quanto inizio del martirio…»1. Santo Stefano è l’antico protettore della città insieme con sant’Agata, un tempo anch’essa rappresentata sullo spigolo opposto dell’arco in un ritratto purtroppo perduto.

La parete sinistra

Sulla parete sinistra dell’abside (figg. 43 e 45) è affrescato, a grandezza d’uomo, il trittico raffigurante l’arcangelo Gabriele, san Leonardo (vissuto nel VI secolo) e la vergine Maria. L’autore è certamente uno degli artisti che ha condotto la realizzazione del Giudizio Universale sulla controfacciata della chiesa.

La centralità di san Leonardo sembra interrompere la scena dell’Annunciazione. I committenti di questo affresco, molto probabilmente i medesimi che commissionarono la realizzazione del Giudizio Universale2, hanno voluto rendere grazie al santo non tanto perché difensore dei carcerati, ma piuttosto come protettore delle partorienti e della prole e, quindi, delle famiglie. La Legenda Aurea narra che Leonardo, predicando in ogni luogo, compì molti miracoli, vivendo in un bosco presso la città di Limoges, dove c’era una dimora del re destinata alla caccia. Accadde una volta che il re stava lì a caccia, e la regina, uscita a passeggio, si trovò in pericolo di morire di parto. Il re e tutto il seguito piangevano per la morte della regina: ma Leonardo passava per il bosco e sentì i loro gemiti. Mosso a pietà, corse in fretta verso di loro e, invitato dal re, entrò. Il re gli chiese chi era, e avendo risposto che era il discepolo di san Remigio, il re prese a bene sperare, pensando che un buon maestro l’avesse ben istruito; lo fece entrare dove si trovava la regina, sperando di ottenere dalle sue preghiere la duplice grazia della guarigione della regina e della nascita della prole. Leonardo si mise in preghiera e ottenne subito quanto il re chiedeva3.

Le quattro figure di committenti rappresentate in ginocchio ai piedi del santo sembrano i membri di una famiglia composta dalla madre, dal padre e da due figli, una ragazza e un ragazzo4. È probabile che l’atto votivo dei due genitori sia la conseguenza di due parti felici, i cui frutti sono ritratti anch’essi in preghiera. Questa interpretazione giustificherebbe la posizione centrale di san Leonardo, tra l’angelo annunziante e la vergine Maria: il protettore delle partorienti suggella il mistero dell’Incarnazione.

Al di sopra del trittico è raffigurato il tabellone di sant’Antonio abate (fig. 46), vissuto nel IV secolo. La figura centrale, di grandi dimensioni, è affiancata da sei piccoli riquadri che descrivono alcuni episodi della sua esistenza. Il santo è raffigurato, secondo la tradizione iconografica, come un vegliardo dalla lunga barba; indossa il saio monastico, ha il capo coperto da un cappuccio, impugna nella mano sinistra un bastone a forma di tau (simbolo dalla metà del XII secolo dell’ordine di sant’Antonio, adottato forse in ricordo di quello a forma di stampella che il santo avrebbe usato in tarda età) mentre, con la mano destra, sorregge un libro.

Dei sei riquadri affrescati, quelli posti a sinistra rispetto all’immagine del santo sono purtroppo danneggiati e non facilmente leggibili. Nel primo in alto, sant’Antonio è ritratto in un ambiente urbano – lo suggeriscono i palazzi raffigurati alle sue spalle – insieme a quattro figure femminili.

Il santo benedice una donna sorretta da una compagna. Dalla bocca della donna a cui è impartita la benedizione esce un piccolo diavolo nero (le condizioni dell’affresco sono tali da fare solo intravedere una esile macchia scura che esce dalle labbra dell’indemoniata). La scena si riferisce ad un episodio narrato da sant’Atanasio nella Vita s.Antonii Magni5 e relativo al viaggio compiuto da Antonio ad Alessandria per combattere l’eresia ariana. A quanto riferisce la leggenda, il santo fu avvicinato da una donna che chiedeva aiuto per la propria figlia tormentata dal diavolo. Egli pregò in silenzio Gesù e, immediatamente, lo spirito maligno uscì dal corpo della giovane, suscitando la gioia della madre e la meraviglia dei presenti (fig. 47). Scena, questa, forse rappresentata nel riquadro sottostante, purtroppo assai compromesso, dove si percepisce la figura del santo ritratto nel medesimo scenario, indizio di una continuità narrativa. Anche il terzo quadro è lacunoso: la presenza di una montagna rocciosa lascerebbe supporre che in origine vi fosse dipinto un episodio relativo alla vita eremitica del santo.

I tre quadri a destra si riferiscono invece all’incontro con san Paolo eremita (figg. 48 – 50), di cui narrano la Vita Pauli6 e la Legenda Aurea7. Antonio credeva di essere il primo fra i monaci ad avere intrapreso la vita eremitica, ma scoprì, grazie ad un sogno rivelatore, l’esistenza di un altro uomo che lo aveva preceduto in questa scelta, con uno stile ancora più radicale. Desideroso di conoscerlo, iniziò a cercarlo nella boscaglia. Dopo avere incontrato misteriose creature, gli venne incontro un lupo che lo accompagnò dove risiedeva san Paolo. Il primo quadro in alto si riferisce proprio all’incontro tra i due anacoreti: Antonio ha appena varcato la soglia                 dell’eremo, raffigurato come una struttura architettonica medievale e non, secondo quanto affermava la Vita Pauli, come una spelunca8; sembra rivolgere la parola a Paolo, come lascia supporre la gestualità della mano destra. Nel quadro successivo è rappresentato il commiato, occasione in cui Paolo rivela ad Antonio la propria morte imminente. Paolo è in terra, supino, e Antonio, in piedi, gli impartisce la benedizione. La leggenda agiografica ci dice che Antonio, mentre faceva ritorno al suo eremo, vide l’anima di Paolo portata in cielo dagli angeli; tornò allora immediatamente sui suoi passi e trovò il corpo di Paolo in atteggiamento orante, in ginocchio, tanto da sembrare ancora vivo. Antonio, dopo aver recitato gli inni e i salmi dovuti, si rattristò di non potere dare una degna sepoltura al proprio compagno, poiché non aveva nulla per scavare una fossa. Miracolosamente però apparvero due leoni che si diressero subito presso il cadavere, iniziarono a scavare una buca e si allontanarono solo quando il corpo di Paolo fu sepolto. È questo il tema dell’ultimo quadro: la scena si svolge fuori dall’eremo che, anche in questo caso, è rappresentato come una chiesa medievale. Due angeli sorreggono su un telo di lino l’anima orante di san Paolo, vestita di bianco; il corpo esanime di Paolo è a terra e Antonio, con un piccolo libro, è intento a recitare le preghiere; i due leoni scavano una fossa per la sepoltura. Ciò che nella letteratura agiografica viene scandito in più azioni è stato qui sintetizzato efficacemente in un unico quadro.

E interessante osservare come in questi affreschi, conformi al canone figurativo della vita di sant’Antonio, ci sia stata una fusione di elementi appartenenti a due diversi racconti agiografici.

Gli episodi più tardi della vita di Antonio – relativi all’incontro con Paolo -, che non compaiono nei racconti delle vite a lui dedicate, bensì in quelle che si occupano della vita di Paolo, vengono qui raffigurati insieme, come brani tratti da un unico testo, quasi a voler ricomporre più parti di un racconto che la tradizione letteraria ha invece separato.

La diffusa devozione locale nei confronti di sant’Antonio abate è attestata da un ulteriore ritratto del santo, diverso come fattura e stile da quello sopra descritto e dipinto sulla parete absidale opposta. L’eremita è raffigurato, secondo l’iconografia che gli è propria, come un vegliardo con il saio monastico, non indossa però il cappuccio. Al suo fianco compaiono i committenti di questo affresco, una coppia in ginocchio, in preghiera. Le mani di proporzione smisurata evidenziano il loro atteggiamento orante. Insieme alle due figurette l’artista ha riprodotto, in modo quasi ingenuo, un porcellino nero; forse anche l’animale avrà beneficiato dell’intervento salvifico del proprio santo protettore (figg. 67 – 68).

L’iconografia ha spesso ritratto sant’Antonio accompagnato da un porcello; all’origine di questa raffigurazione sarebbe stato il privilegio conferito all’ordine antoniano – risalente al 1095 – di allevare in libertà i maiali9, purché portassero al collo una campanella come segno di riconoscimento. La diffusione del culto a sant’Antonio sarebbe scaturita invece grazie alle miracolose guarigioni di malati di ergotismo10, detto anche «fuoco sacro» o «fuoco di sant’Antonio», verificatesi a partire dal secolo XI nella Francia meridionale e attribuite alle reliquie del santo11. Sopra il tabellone istoriato di sant’Antonio è raffigurato un trittico piuttosto lacunoso (fig. 43): l’arcangelo Michele nell’atto di trafiggere Lucifero, san Nicola di Mira che sorregge con la mano destra il fanciullo Adeodato12, di cui si intravede solo la parte inferiore del corpo, e san Tommaso d’Aquino, che sorregge la sua Summa Theologiae. Al di sopra i frammenti superstiti lasciano supporre una rappresentazione della Sacra Famiglia.  Nell’ammirare il recupero dell’antica monofora, che in origine filtrava il primo sole del mattino,  lo sguardo si sposta sulla zona destra della parete, ove è rappresentata una Crocifissione (fig. 51).

L’affresco, sovrapposto ad una più antica campitura azzurra, testimonia nei lineamenti dell’unico volto ancora godibile, quello di san Giovanni evangelista, una significativa influenza della scuola giottesca, di cui si hanno importanti testimonianze nel territorio campano.  In basso è rappresentato un trittico piuttosto frammentario, ove si riesce a leggere l’immagine della Madre «di Dio»  (parola, quest’ultima, un tempo espressa dal termine Theon  di cui rimane la lettera greca iniziale theta) con in braccio il bambino Gesù.  Il Bambino ha la mano destra rivolta verso la Madre e con la sinistra regge una pergamena arrotolata (fig. 52).

Le altre due figure sono illeggibili, anche se il frammento di scrittura della prima sembra riferirsi a san Nicola da Tolentino (personaggio che è affrescato anche sulla parete destra), mentre il fodero di una lunga spada nella seconda sembra richiamare l’attributo iconografico di san Giuliano. Infine, si possono ammirare le figure di san Gregorio Magno, come indica la scritta (Gregorius), e del Battista nell’atteggiamento di proclamare la presenza tra gli uomini dell’«Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (fig. 53).  Il primo è ritratto come di consuetudine con la tiara e con il libro delle Sacre Scritture nella mano sinistra, mentre con la destra impugna uno stilo.

Il secondo mostra la presenza dell’Agnus Dei: indica l’Agnello, simbolo cristologico,   all’interno di una piccola sfera rossa ormai sbiadita e tiene il cartiglio con le parole pronunciate  in  occasione  del  battesimo  di  Cristo nel  fiume  Giordano: Ecce (agnus) dei,  ecce qui  (t)ole(t)  (peccatum mundi)13, (Giovanni, 1, 29).   Ai lati del Precursore sono richiamati i momenti più salienti della sua vita (fig. 43): il battesimo di Gesù nel fiume Giordano, la danza di Salomè e il martirio nel carcere di Macheronte. Al di sotto della monofora sono rimasti alcuni frammenti della Fuga in Egitto, riconoscibile per la donna col bambino in braccio su di un asinello tirato da un uomo . L’immagine fa parte di un trittico che comprendeva l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio, affreschi strappati durante i lavori di recupero dell’antica monofora e oggi collocati nella navata della chiesa (fìgg. 89 – 90).

Nel registro sottostante il frammentario affresco dell’Annunciazione, la parete centrale (fig. 54) presenta un originario trittico, di cui restano solo due figure (fìgg. 55 – 56). Sono, come indicano le relative didascalie, san Lorenzo (S. Larentius), martire del III secolo, e ancora il Battista (S. ]oh[ann]es ba[ptist]a), ritratto secondo il canone già incontrato nella parete sinistra. Sono affreschi di pregevole fattura, come dimostrano i volti, il movimento delle mani e la ricchezza del vestito del santo diacono. Ai piedi di Giovanni è raffigurato, in atteggiamento di preghiera, il committente dell’affresco. Più in basso sono rimasti due piccoli riquadri che con ogni evidenza illustravano la vita di un vescovo martire, vittima della persecuzione imperiale.

Il primo mostra un angelo che solleva dalle acque il vescovo gettato in mare dai soldati. Il martire è ritratto nudo, con la mitra e l’aureola, indizio di conclamata santità. Nel secondo riquadro, legato ad un palo, egli subisce la flagellazione ordinata dall’imperatore ad opera di due carnefici, uno dei quali di chiara origine africana (fìgg. 58 – 59).

Queste bellissime immagini ci ricordano un tema caro all’agiografia campana, tratto da passiones redatte tra il IX e il XII secolo. È il topos dei santi martiri cristiani di origine africana, che vengono imbarcati su navi sconquassate dai loro persecutori, con l’intento di farli morire in mare e disperdere le loro potenziali reliquie tra i flutti. Ma il santo equipaggio, grazie all’intervento divino, spesso rappresentato con la figura di un angelo-guida, riesce a raggiungere incolume le coste campane14. Lo narra per primo Vittore di Vita (V secolo) nella Storia della persecuzione vandalica in Africa15: «Allora [Genserico] ordinò che persino il vescovo della summenzionata città, cioè di Cartagine, noto a Dio e agli uomini, che aveva il nome di Quodvultdeus, e una grandissima turba di ecclesiastici, imbarcata su navi sfasciate, nudi e spogliati fossero cacciati via. Ma il Signore nella misericordia della sua bontà si degnò di farli pervenire con prospera navigazione a Napoli, città della Campania»16.

Su una nave forata furono imbarcati, ad esempio, i vescovi africani Prisco17, Castrese, Rosio, Canione e Tammaro18, vittime della persecuzione dell’imperatore Valente (368 o 378); ma ognuno di essi, grazie all’aiuto di un angelo, raggiunse la sede episcopale che Dio gli aveva predestinato.

Protagonista di una traversata miracolosa fu anche sant’Erasmo, vissuto in Siria nel IV secolo e vittima della persecuzione dell’imperatore Diocleziano; fu liberato dalle prigioni imperiali da un angelo, con cui sorvolò il mare per raggiungere l’Illirico e poi Formia19.

Queste narrazioni si diffusero nel medesimo periodo in cui le coste campane furono meta delle incursioni saracene. Probabilmente la devozione per questi particolari tipi di santi servì ad esorcizzare il pericolo che veniva dal mare20.

Volgendo lo sguardo agli affreschi non è facile stabilire chi sia il santo qui raffigurato. Si potrebbe supporre che si tratti di sant’Erasmo perché il suo culto, a livello locale, ebbe una diffusione più fortunata rispetto ai santi Castrese, Canione, Prisco, ecc.; lo testimonia la chiesa a lui dedicata nel XIV secolo a Durazzano, in prossimità di Sant’Agata de’ Goti21.

Al centro della parete, al di sotto della monofora che filtra la luce attraverso i colori densi e ricchi della vetrata di Bruno Cassinari (fig. 91), due angeli sorreggono il Crocifisso; l’affresco, con molta probabilità, sovrastava l’antico altare addossato alla parete, così come prescrivevano le norme liturgiche del tempo.

Segue l’immagine di una santa di origini regali (indossa una corona), che sostiene con la mano sinistra una scatola lignea suddivisa in tre comparti e con la destra, aiutata da un utensile simile ad uno stretto cucchiaio, sembra mescolarne il contenuto. Gli oggetti che impugna sono uguali a quelli che talvolta sono soliti identificare i santi Cosma e Damiano22, che praticavano l’arte medica.

È possibile che si tratti di santa Elisabetta d’Ungheria (1207- 1231), figlia del re Andrea e attiva nella cura degli ammalati23. Se così fosse, questa immagine rappresenterebbe una versione piuttosto singolare della santa, che più spesso veniva ritratta come una terziaria francescana (fig. 60). Il culto di Elisabetta d’Ungheria fu particolarmente sostenuto, nel territorio campano, da Maria d’Ungheria, pronipote della santa e moglie di Carlo II. Fu lei a commissionare gli affreschi con le storie della vita di santa Elisabetta nella chiesa di S. Maria Donnaregina, a Napoli.

Chiude la parete il tabellone istoriato di san Biagio (S. Blasius), vescovo e martire del IV secolo24, il cui martirio sarebbe avvenuto all’epoca dell’imperatore Diocleziano o dell’imperatore Licinio. Anche in questo caso la figura intera del santo – ritratto con una lunga barba bianca, mitra, pastorale e in atto benedicente – è attorniata da piccoli riquadri che ricordano episodi particolari della sua vita (figg. 61 – 62). La prima scena, in alto a sinistra, si riferisce al periodo in cui il santo, appena eletto vescovo di Sebaste, città della Cappadocia, andò a vivere in una caverna presso il monte Argeo per sfuggire alla persecuzione imperiale. Egli è raffigurato in una grotta, dove in ginocchio prega (fig. 63). La letteratura agiografica narra che visse in estrema solitudine nel proprio eremo; soltanto gli animali selvatici si recavano da lui mansueti e non si allontanavano finché egli non avesse posto su di loro la mano in segno di benedizione. Il tema dell’affetto del santo verso gli animali fu assai diffuso nell’agiografìa dell’Alto Medioevo latino; uno degli episodi più ricorrenti, utilizzati per manifestare la familiarità tra santo e bestie selvatiche, fu proprio quello degli animali braccati dai cacciatori che venivano salvati dall’ospitalità di un eremita25

Attraverso questa familiarità si manifestava il potere del santo sul mondo animale e quindi l’obbedienza che esseri inferiori osservavano davanti a chi era sottoposto totalmente a Dio26. Il primato dell’uomo sul mondo animale era del resto un concetto acquisito del pensiero cristiano: «Dio poi benedì Noè e i suoi figli, dicendo loro: siate fecondi, moltiplicatevi […] La paura di voi e il terrore di voi siano in tutti gli animali selvatici e in tutti gli uccelli del cielo, come in ognuno che striscia sulla terra e in tutti i pesci del mare; essi sono dati in vostro potere» (Genesi, 9, 1-2)27. Ma l’uomo del Medioevo difficilmente riusciva a porsi come dominatore sulla natura, anzi ne era spaventato. E gli animali del deserto, resi mansueti dai primi eremiti, come i due leoni che aiutano sant’Antonio abate a scavare la tomba di san Paolo, erano visti, nel mondo occidentale, come la fauna delle foreste, con i suoi orsi e i suoi cervi, per citare solo due delle specie più diffuse e temute. L’uomo medievale, non riuscendo a sottomettere la natura, si affidava ai santi eremiti, che riuscivano a domarla in virtù della loro totale dedizione a Dio28.

Tornando al primo quadro del tabellone di san Biagio, vediamo che l’eremita è in atteggiamento orante, ma volge lo sguardo ad un gruppo di uomini che sembrano essersi uniti a lui da poco. Singolare episodio che non ha riscontri nelle fonti letterarie, in cui è scritto che gli unici uomini incontrati dal santo nel proprio eremo furono dei soldati, mandati dal governatore della provincia. Questi, durante una vana battuta di caccia, trovarono animali di ogni specie dimorare in tranquillità proprio lì dove Biagio era intento a pregare. La familiarità del santo con gli animali è invece rappresentata, seppure in secondo piano, da figure ormai sbiadite, poste alle spalle dei fedeli in preghiera, tra le quali si distingue un piccolo quadrupede bianco.

Il riquadro subito in basso testimonia la cattura del santo ordinata dal governatore imperiale; due soldati scesi da cavallo (si vedono ancora le zampe anteriori di un animale) afferrano l’eremita che non oppone resistenza (fig. 64).

La terza scena, che presenta grosse lacune, mostra l’incontro avvenuto nella città di Sebaste tra san Biagio, condotto dai soldati imperiali, ed il governatore Agricolao, seduto in trono e con in capo la corona di alloro. La presenza di una colonna sormontata da un idolo (una piccola figura bianca antropomorfa) fa ipotizzare che questa scena non si limiti a rappresentare l’incontro tra il temibile governatore Agricolao, «immitis, ferox, crudelis et secundum nomen suum agrestis»29, e Biagio, ma tenti anche di descrivere l’occasione in cui avvenne uno scambio di battute tra i due, che la letteratura agiografica ci ha tramandato. Sarebbe il momento in cui Agricolao saluta Biagio chiamandolo provocatoriamente «amico degli dei»; mentre il santo, rispondendo prontamente, definisce gli dei «demoni». La risoluta risposta del santo ne sancì l’incarcerazione e la fustigazione.

L’ultimo riquadro rimasto è relativo ad un celebre evento miracoloso (fig. 65): un bambino soffocato da una lisca di pesce viene guarito dal santo. Tra le figure prossime al carcere del santo – Biagio è in prigione, lo suggerisce la struttura architettonica in cui è inserito – in primo piano è una madre, che mostra al santo il proprio figlio, sostenendogli il capo. L’artista lo ha ritratto con la bocca aperta, proprio come chi, avendo difficoltà respiratorie, socchiude le labbra sperando di poter trarre un poco di giovamento. Biagio, richiamato dalle invocazioni di aiuto della donna, impartisce la benedizione al fanciullo inginocchiato davanti a lui. Gli agiografi ci informano che nel momento in cui Biagio fece il segno della croce vicino alle labbra del bambino, questi immediatamente espulse la lisca di pesce e guarì.

L’episodio ebbe tanta fortuna nel corso dei secoli che ancora oggi il 3 febbraio, giorno anniversario della morte del santo, i fedeli sono soliti farsi ungere la gola con l’olio benedetto. Nella stessa ricorrenza in Francia, Spagna, Germania e Italia venivano distribuiti – e in alcuni luoghi la tradizione sussiste ancora – piccoli pani che nella forma ricordavano le parti del corpo malate; a Milano in occasione della festa di san Biagio si mangia una fetta di panettone conservata appositamente dal giorno di Natale30.

La parete destra (fig. 66) si presenta interamente affrescata senza la monofora, ma con un occhio di luce che permette al sole di mezzogiorno di rischiarare lo spazio sacro. Gli affreschi sono disposti su tre registri: sul primo, in alto, è rimasta la figura di sant’Antonio abate, già descritta, e resti di una Annunciazione; sul secondo sono effigiate le storie di sant’Orsola, di san Nicola da Tolentino e quelle di un santo di dubbia identificazione; sul terzo, la Sacra Famiglia, san Nicola di Mira ed un santo diacono. Un primo grande affresco dedicato a sant’Orsola è purtroppo assai lacunoso. Ma è evidente che la santa era stata ritratta in posizione centrale, attorniata dalle vergini che condivisero con lei il martirio. Le figure femminili rivolte in preghiera verso la santa sono infatti tutte raffigurate con il nimbo. Orsola, figlia di Noto o Mauro, principe cristiano della Gran Bretagna vissuto nel IV secolo, fu martirizzata a Colonia insieme alle sue undicimila compagne31.

Si racconta che un arrogante re d’Inghilterra volesse far sposare il proprio figlio unigenito con Orsola, nota ovunque – come si conviene ad una futura santa – per contegno, sapienza e bellezza. Per ritardare l’indesiderato matrimonio, la giovane convinse il padre ad acconsentire alla volontà del sovrano (una risposta negativa alla proposta di questi avrebbe potuto scatenare una guerra), purché lei potesse disporre di un periodo di tempo pari a tre anni da dedicare ancora alla sua verginità e affinché il futuro sposo fosse istruito nella fede. Le furono concesse dieci vergini per esserle di compagnia e consolazione e poi ancora altre mille vergini furono concesse alle undici fanciulle. Ponendo molte difficoltà. Orsola cercava di distogliere il re dal suo proposito. Passati i tre anni concordati, la giovane fuggì con una flotta di undici triremi insieme alle sue undicimila compagne. Durante il viaggio, nei pressi di Colonia, un angelo le apparve predicendole che in quel luogo avrebbero tutte ricevuto la corona del martirio. Su indicazione dell’angelo si diressero a Roma, dove papa Ciriaco le ricevette con grandi onori. Scrive Iacopo da Varazze:

Durante la notte il papa ebbe la rivelazione divina che anch’egli avrebbe ricevuto la palma del martirio assieme a tutte le vergini. Non ne parlò a nessuno; battezzò anche tutte le vergini che non erano ancora state battezzate, e visto che era ormai giunto il momento opportuno, dopo essere stato il 19° successore di Pietro per un periodo di un anno e 11 settimane, radunò tutti e rivelò il suo proposito, rinunciando alla carica e ai suoi onori32.

La Legenda Aurea ci informa che il papa fu ritenuto folle, le vergini definite dal clero di Roma «donnette pazze»33. I capi dei soldati di Roma, Massimo e Africano, vedendo la moltitudine di vergini e la folla che accorreva per unirsi ad esse, temettero che la religione cristiana si diffondesse troppo per causa loro. Studiarono quindi l’itinerario dell’insolito corteo e mandarono messaggeri al re degli Unni, perché le vergini fossero trucidate appena giunte a Colonia. Questo l’antefatto.

L’artista inizia la narrazione della storia di sant’Orsola dal viaggio attraverso il mare compiuto dalla moltitudine di vergini accompagnate da papa Ciriaco. Il pontefice, riconoscibile dalla tiara, è seduto sull’imbarcazione, a poppa, e benedice sia le donne salite a bordo che quelle che stanno per imbarcarsi; la nave è ormeggiata, la vela non è ancora stata spiegata (fig. 70). Nella seconda scena la nave, con il suo carico di santità, viaggia per raggiungere Colonia (fig. 71). La vela in questo caso è stata disegnata spiegata, gonfia per la forza del vento. La città dell’annunciato martirio è prossima: si scorgono i palazzi su una rupe rocciosa.

Papa Ciriaco sembra avere le funzioni di un comandante, che, consapevole dell’obiettivo da raggiungere, conduce il proprio equipaggio verso la meta prefissata, ovvero il martirio.  Il pontefice impartisce l’ultima benedizione alle vergini; tra queste è raffigurata, in primo piano, Orsola34. Nell’ultimo riquadro è illustrata la strage delle vergini: cavalieri e fanti escono dalla cinta muraria della città e infieriscono sulla folla cristiana disarmata. Gli ultimi a soccombere sono proprio papa Ciriaco e sant’Orsola, entrambi feriti mortalmente dalle lance degli Unni (fig. 72). Così è narrato nella Legenda Aurea il martirio della santa:

Quando i barbari le videro si gettarono urlando contro di loro, e si scatenarono furiosamente come lupi fra gli agnelli, uccidendo tutta quella moltitudine. Quando, massacrate le altre, giunsero a sant’Orsola, il capo degli Unni, vista la sua bellezza, rimase pieno di stupore, e, cercando di consolarla della strage delle altre vergini, le promise che l’avrebbe sposata. Orsola però rifiutò, e il capo unno, vistosi disprezzato, le scagliò contro una freccia, che la trapassò uccidendola35.

Palese è l’affermata santità di Orsola e delle sue compagne attraverso il sacrificio nel sangue: nel momento stesso in cui si compie il martirio sono ritratte col capo nimbato.A fianco del tabellone istoriato di sant’Orsola è visibile quello dedicato a san Nicola da Tolentino. Il nome del santo è deducibile attraverso i resti di una didascalia apposta a lettere bianche su fondo azzurro nel riquadro che lo ritrae a figura intera. Egli appare, come di consuetudine, con aspetto giovanile, il viso glabro, il capo tonsurato (fig. 73 ).  Secondo la Vita redatta da Pietro da Monterubbiano56, la sua nascita, avvenuta a Sant’Angelo in Pontano nel 1245, fu dovuta alla intercessione di san Nicola di Mira, che l’aveva preconizzata ai suoi genitori in un sogno. Il bambino, dalle precoci inclinazioni ascetiche, già a undici anni entrò come oblato presso i frati dell’ordine di sant’Agostino, nella propria città natale. La sua vita fu caratterizzata da una condotta esemplare, fatta di preghiera, sacrifici, digiuni e costanti attenzioni nei confronti dei bisognosi, che confortò con numerosissimi miracoli, anche dopo la propria morte.

Il primo quadro degli affreschi propone il «miracolo delle pernici» (fig.74). L’evento prodigioso fu testimoniato da Berardo Accorimboni, vescovo di Camerino ( 1310-1327 ), durante il Processo di canonizzazione del santo3‘. Il prelato asserì che, intorno al 1305, fu servito a Nicola, debilitato dai costanti digiuni a cui era solito sottoporsi, un piatto con una coppia di pernici arrosto. Il santo, desideroso di perseverare nella penitenza, invece di mangiare, benedisse la pietanza, e subito i due uccelli si misero a volare. Il santo è ritratto a letto, malato, e indossa il saio: è probabile che, con questo dettaglio, il pittore abbia voluto alludere alla radicale scelta di vita in austerità e in povertà del santo, che si copriva soltanto con rozze tuniche’8. Le sue mani sono in atto benedicente, mentre un confratello gli porge un piatto ormai vuoto, sul quale si intravedono le ali spiegate di due uccelli ormai sbiaditi.

Il secondo riquadro descrive la liberazione di una ossessa, sul volto della quale si possono ancora intravedere le tracce nere di diavoli in fuga dopo l’intervento taumaturgico del santo (fig. 75). Il terzo quadro si riferisce invece ad una guarigione o forse a un ritorno alla vita di una giovane donna (fig. 76). Entrambe le scene non possono essere ricondotte a specifici episodi taumaturgici del santo, poiché non sussistono elementi che possano farci identificare con certezza l’identità delle due donne. È possibile dunque, viste le numerosissime guarigioni dalle più svariate patologie e le molte liberazioni di ossessi attribuite ai poteri miracolosi del santo, che le due scene si riferiscano in maniera generica alla prodigiosa capacità di Nicola di guarire gli ammalati e di liberare gli indemoniati39. Nel quarto quadro, il primo in alto alla sinistra del santo, Nicola benedice un impiccato. L’uomo, con una veste bianca e le mani legate dietro la schiena, è ritratto mentre viene liberato dal cappio. La fune non è intorno al collo del condannato, ma pende sulla sua testa, a significare la riacquistata libertà per opera di san Nicola (fig. 77).

La scena, molto probabilmente, si riferisce all’episodio della liberazione dei fratelli Mizulo e Vanni40. I due confessarono la responsabilità di un omicidio mai compiuto per non subire le atrocità di un interrogatorio accompagnato da torture. Condannati all’impiccagione, i fratelli si affidarono alla intercessione del santo. Il primo a subire la condanna fu Vanni. Ma quando, dopo quattro giorni, i boia si recarono sul luogo dell’esecuzione per uccidere Mizulo, trovarono Vanni miracolosamente vivo. Riconosciuto l’intervento di Dio, supremo giudice, avvenuto per intercessione di Nicola, liberarono anche Mizulo.

L’affresco immortala la liberazione di Vanni, ma ricorda, in senso più ampio, la capacità che ebbe il santo di liberare molti prigionieri accusati ingiustamente. Egli diveniva, agli occhi dei fedeli, il celeste aiutante su cui riporre le speranze in caso di sentenze inique. Scorrendo le testimonianze degli atti di canonizzazione del santo è frequente, infatti, imbattersi in storie di rocambolesche evasioni dal carcere messe in atto da uomini condannati ingiustamente proprio grazie all’intervento di Nicola41

Segue, subito in basso, il miracolo delle anime salvate dal purgatorio (fig. 78). L’episodio, narrato anche questo nella Vita scritta da Pietro da Monterubbiano, rappresenta uno dei prodigi giovanili del santo, da poco sacerdote e residente nell’eremo di Valmanente, nei pressi di Pesaro. Proprio qui, una notte, Nicola fu richiamato dalla voce del defunto frate Pellegrino da Osimo, tormentato dalle fiamme del purgatorio. Egli implorò Nicola di celebrare una messa per i morti, affinché potesse essere posta fine al suo tormento e a quello delle anime che pativano le sue stesse sofferenze. Dal giorno successivo, e per un’intera settimana, Nicola celebrò messe per i defunti, finché, il settimo giorno, frate Pellegrino gli apparve, ringraziandolo per essere stato liberato42.

La scena è ambientata all’interno di una chiesa; il santo in paramenti bianchi sta celebrando messa e innalza con le mani l’ostia consacrata davanti all’altare. Alle sue spalle un ministrante sostiene un cero pasquale acceso, simbolo di resurrezione, mentre la campana della chiesa suona spontaneamente, annunciando l’accaduto miracolo: un angelo sta portando in cielo l’anima di frate Pellegrino4‘.

Da questo evento prodigioso, raffigurato anche a Tolentino, nel Cappellone di S. Nicola, deriva la pratica secolare della «messa di san Nicola»44, celebrata in suffragio delle anime di cui il santo fu ritenuto patrono.

Nell’ultimo quadro viene invece proposta una allegoria del santo in qualità di pacificatore45. San Nicola è ritratto mentre benedice un contadino e un soldato che si rivolgono a lui a mani giunte (fig. 79). Il culto di Nicola da Tolentino, unico santo «contemporaneo» ritratto nell’abside della SS. Annunziata, si diffuse subito dopo la sua morte, avvenuta nel 130546. La devozione dei fedeli nel territorio campano fu immediata, come dimostrano le testimonianze del Processo, e sicuramente sostenuta dalla fervente pietà di Sancia di Maiorca, moglie del re Roberto d’Angiò (1309-1343). L’immagine di questa regina comparirebbe tra quelle dei numerosi committenti del ciclo del Cappellone di S. Nicola da Tolentino47.

Il secondo registro si chiude con un tabellone istoriato di difficile interpretazione (fig. 80). La figura centrale propone un santo dall’aspetto giovanile, glabro, con la chioma bionda e con indosso una tunica rossa. Oltre a un libro, che impugna con entrambe le mani, il personaggio non possiede attributi particolari che possano rendere agevole la sua identificazione, né i riquadri che lo circondano ne facilitano l’interpretazione.

Quelli alla sua sinistra sono quasi illeggibili, mentre i corrispondenti alla destra presentano un forte contrasto stilistico tra i primi due ed il terzo, eseguito da mano più esperta in un secondo momento (fig. 81). È proprio questa terza scena che presenta indizi facilmente interpretabili: all’interno di una chiesa un santo monaco, che la dicitura piuttosto sbiadita dice chiamarsi Gu(ie)l(mu)s, rende atto di sottomissione ad un vescovo. Il santo indossa un saio bianco e questo porterebbe a riconoscerlo, come suggerisce anche la dicitura, in Guglielmo da Vercelli48 (1085-1142), fondatore della congregazione benedettina di Montevergine, ritratto mentre presta obbedienza al vescovo Giovanni di Avellino che riconosce l’utilità e la santità del suo ordine religioso49.

Ma, se tutto il tabellone fosse stato dedicato a Guglielmo da Vercelli, ci troveremmo di fronte ad una palese incongruenza rispetto all’iter narrativo dei tabelloni precedenti: il santo a figura intera non ha alcun attributo che lo identifichi come san Guglielmo. Difficile anche l’interpretazione dei due riquadri in alto, il cui stato di conservazione non agevola la leggibilità. Nel primo un re è rappresentato nell’atto di impartire un ordine a due cavalieri. Nel secondo due uomini a cavallo, forse due cacciatori (quello a sinistra ha qualcosa in mano, probabilmente della cacciagione), incontrano un                   santo dall’aspetto trascurato, con abiti da contadino, un rozzo cappello, scalzo e con il viso coperto da una leggera barba. Sembra impugnare una bacchetta, un fuscello, con cui potrebbe sostenersi nel cammino. Questa scena potrebbe riguardare, con una certa forzatura, l’incontro tra san Guglielmo, intento a cercare un sito ricco di acqua per fondare il proprio monastero, e due cacciatori, esperti conoscitori del luogo, che gli indicarono una sorgente50.

Ma resta insoluto il significato della scena soprastante e, soprattutto, il riferimento alla figura centrale. È dunque ipotizzabile una stratificazione di affreschi relativi a due diversi soggetti agiografici, giunti a noi sovrapposti e privati del loro programma narrativo originario. Forse l’inserimento postumo del riquadro con san Guglielmo fu realizzato per solennizzare la costruzione del monastero dei verginiani avvenuta nella città di Sant’Agata de’ Goti durante l’episcopato di Giacomo Martone (1346-1350)51. Il terzo registro della parete si apre con una grossa lacuna che, tuttavia, lascia intravedere la figura di san Giuseppe con il bastone fiorito. In ogni caso della Sacra Famiglia si è salvata la Madonna che mostra al Bambino una mela (fig. 69).

Con chiaro riferimento al celebre racconto del Genesi, la Madre sembra voler presentare al Figlio, frutto del suo grembo, la necessità di riparare la colpa originale di Eva.

Segue il tabellone istoriato di san Nicola di Mira’2, ritratto mentre tiene per i capelli il fanciullo Adeodato; la figura di Adeodato, beneficiario di uno dei più celebri miracoli del santo, è divenuta uno degli attributi iconografici identificativi di Nicola (fig. 85). La prima scena illustra la nascita del santo (fig. 82).

La madre, Giovanna, ha appena partorito e riposa nella sua camera, distesa nel letto. Due donne le porgono generi di conforto per alleviare le fatiche del parto.  La prima servente, che indossa una veste color senape, sostiene una ciotola con la mano sinistra, mentre con la destra sembrerebbe offrire un batuffolo, imbevuto forse di sostanze rinvenenti, sali probabilmente. La seconda donna porge invece alla puerpera una ciotola colma di cibo. E un’immagine tratta dalla realtà quotidiana e tutta al femminile: una donna che ha appena partorito riposa nel proprio letto: altre donne, che hanno assistito al parto, recano conforto alla puerpera e si occupano del primo bagno del neonato (fig. 83).

Nel Medioevo erano proprio le donne che si occupavano delle partorienti e, più in generale, delle malattie femminili. La stanza in cui avveniva il parto era preclusa agli uomini. La scena qui raffigurata non differisce molto nei contenuti dalla Nascita della Vergine (1342) di Pietro Lorenzetti conservata a Siena, nel Museo dell’Opera del Duomo. Anche in quest’opera sono ritratte delle donne che si prodigano in favore della partoriente e del neonato.

Tornando con lo sguardo ai nostri affreschi notiamo che il bambino dimostra subito, sin dalla nascita, doti straordinarie, presagio di una personalità fuori dal comune: egli infatti è già in piedi, ben dritto, ed è intento a                 pregare con le mani giunte. «Il giorno in cui nacque, mentre lo stavano lavando, Nicola si alzò e rimase in piedi nel catino; e per di più il mercoledì e il venerdì prendeva il latte una sola volta al giorno»53.

L’autore dell’affresco ha proposto un altro importante segno per testimoniare l’eccezionalità del neonato: Nicola non viene lavato in una semplice tinozza, ma in una vasca che ha le sembianze di un fonte battesimale. Il primo bagno del neonato assume un significato ben più importante, è divenuto allegoria della purificazione dal peccato originale attraverso il battesimo. E Nicola, mondo da ogni macchia, sembra essere già pronto a dedicare la propria vita alla preghiera.

Il secondo quadro si riferisce invece ad una delle più celebri azioni caritatevoli compiute dal santo: il dono di monete d’oro. Narra la leggenda agiografica di tre sorelle, diventate talmente povere da non potere avere una dote ed essere maritate; il padre, disperato, pensò di farle prostituire. Nicola, venuto a conoscenza della situazione, si interessò subito a loro. L’aiuto del santo, giovane e non ancora ordinato sacerdote (nell’affresco è ritratto con il capo tonsurato, come i chierici), avvenne tempestivamente, ma, secondo il precetto cristiano per cui la buona azione del credente deve restare anonima, con grande discrezione. Nicola gettò infatti di nascosto una somma d’oro racchiusa in un sacchetto all’interno dell’abitazione della famiglia bisognosa; compì questa azione di notte, approfittando del riposo del padre e delle fanciulle per non essere riconosciuto. Il padre, sorpreso dall’inaspettata grazia, utilizzò il misterioso dono come dote per la primogenita, che fece sposare. Ma l’estrema povertà lo costrinse a pensare di fare prostituire le altre due figlie. Nicola dunque ripetè la sua offerta una seconda volta e poi una terza, così che ognuna delle tre ragazze potesse disporre della propria dote ed essere sposata. Solo la terza volta l’uomo, che vegliava per scoprire il proprio benefattore, udito il tintinnio dell’oro, riuscì a riconoscerlo in Nicola.

Il quadro che si propone ai nostri occhi è inequivocabile: le tre fanciulle dormono nel loro letto; il padre veglia seduto vicino a loro nella speranza di poter scorgere chi sia l’anonimo donatore – l’uomo ha gli occhi socchiusi, non dorme, anche se la sua postura suggerisce che egli sia piuttosto assonnato, quasi in procinto di addormentarsi – ed ecco che dalla finestra si sporge Nicola con il suo sacchetto carico di denaro (fig. 84). Anche in questo contesto54 la narrazione attraverso le immagini tende a sintetizzare ciò che la letteratura sviluppa in maniera estesa, concentrando più elementi di una vicenda in un unico quadro.

Nell’affresco è raffigurato l’epilogo della storia, come dimostrano la contemporanea presenza del padre che vigila per conoscere il proprio benefattore e di tutte e tre le ragazze, benché le fonti letterarie ci dicano che due di esse si fossero già sposate e quindi, almeno secondo la nostra logica, non avrebbero dovuto dormire insieme. Ma l’iconografia medievale privilegia gli elementi che a prima vista identificano un personaggio, una storia. Elementi, o anche dettagli, che al nostro sguardo sembrerebbero incongruenze anche grossolane non lo erano per le donne e gli uomini a cui queste immagini erano destinate e per i quali tali elementi dovevano essere leggibili con facilità. Importante in questo contesto non è la necessità di riproporre una storia in tutte le sue tappe (siamo noi che guardandole abbiamo bisogno di ricorrere agli antefatti per comprenderne il significato), ma quella di immortalarla attraverso i suoi elementi distintivi più importanti. L’episodio delle monete d’oro fu così celebre che l’iconografia privilegiò, come attributo principale del santo, proprio tre sfere d’oro – compensando con la tridimensionalità la riduzione del numero -. associando la figura di Nicola di Mira principalmente alla sua azione misericordiosa.

Il terzo riquadro propone le immagini della consacrazione a vescovo di san Nicola che, ricevuti la mitra e il pastorale, impartisce la sua prima benedizione episcopale (fig. 86). Dopo questo fatto [episodio delle tre fanciulle], venuto a morire il vescovo della città di Mira, si riunirono gli altri vescovi per provvedere a una nuova elezione. Era presente fra gli altri un vescovo di grande prestigio e autorità, dal quale dipendeva la scelta di tutti gli altri. Questi aveva raccomandato a tutti preghiere e digiuni; la notte stessa udì una voce che gli diceva di mettersi, all’alba, fuori dalla chiesa e di fare attenzione a chi sarebbe entrato per primo: quello (il cui nome doveva essere Nicola) avrebbe dovuto essere consacrato vescovo.

Informò gli altri vescovi e raccomandò loro di continuare a pregare, mentre lui si sarebbe messo di guardia alla porta. E, come per un prodigio, al mattino, quasi accompagnato da Dio. comparve per primo Nicola.

–   Come ti chiami? – gli chiese il vescovo fermandolo. E lui, che aveva il candore di una colomba, inclinato un poco il capo, rispose:

–   Sono Nicola, servo della vostra santità.

Lo portarono subito in chiesa e malgrado tutte le sue resistenze lo fecero sedere sul seggio episcopale55.

L’ultimo riquadro dedicato agli episodi della vita di san Nicola ritrae il miracoloso «rapimento» del fanciullo Adeodato messo in atto dal vescovo di Mira (fig.87). Il fanciullo Adeodato (chiamato così perché secondo i suoi genitori concesso da Dio tramite l’intercessione di san Nicola cui erano profondamente devoti) fu vittima di un rapimento ad opera dei Saraceni e destinato al loro re come schiavo. Nel giorno anniversario di san Nicola, il giovane, che serviva alla mensa del re, si rattristò pensando a come avrebbe potuto trascorrere gioiosa una tale ricorrenza nella sua casa paterna.

Il sovrano, accortosi del suo cruccio, lo minacciò: «Qualunque cosa faccia il tuo Nicola, tu rimarrai qui con noi»56. Subito si sollevò un forte vento che mise a soqquadro la casa e portò via Adeodato con la coppa in                 mano. Il fanciullo fu restituito ai devoti genitori presso la chiesa in cui si trovavano per festeggiare il giorno anniversario di san Nicola, divenuto l’artefice della sua liberazione.

Il fanciullo è ritratto durante un banchetto, mentre porge dell’acqua alla regina e presumibilmente a sua figlia, che siede accanto a lei. Alla destra delle due donne era raffigurato – l’affresco è piuttosto rovinato – il re nell’atto di minacciare il malinconico Adeodato. Degno di nota è l’elemento decorativo che orna le pareti interne della reggia e che rievoca l’arte musiva orientale. Il lusso è ben visibile sulla tavola, apparecchiata con una tovaglia chiara, con delle decorazioni a rombi anch’esse chiare, che conferiscono al tessuto un aspetto serico. Oltre ad eleganti coppe, un piccolo pane ed una ciambella, spiccano due coltelli: il manico nero ben solido e la lama ricurva e appuntita attribuiscono ai due utensili ben affilati un aspetto minaccioso. Adeodato, vestito elegantemente, come si addice al servo di un sovrano, svolge il proprio ruolo di coppiere inconsapevole del prodigio che è in atto: non si è infatti ancora accorto che san Nicola lo ha afferrato per i capelli e sta per portarlo in salvo.

Questa leggenda sembra essere sorta intorno al IX-X secolo57, periodo in cui i territori dell’Italia meridionale erano spesso oggetto delle incursioni e dei saccheggi inferti dalla pirateria araba. La stessa leggenda, in versione in parte diversa e di origine orientale, narra di un fanciullo di nome Basilio, figlio di contadini abitanti presso Mira, rapito dagli Arabi di Creta durante la vigilia della festa di san Nicola e miracolosamente liberato dal santo58. Creta fu conquistata dagli Arabi intorno all’anno 824 e fu base strategica per la pirateria saracena. L’eco delle violente scorrerie degli «infedeli», ma anche il timore di subire il rapimento dei propri figli per farne degli schiavi59, sono senz’altro all’origine di questo episodio leggendario. I genitori sfortunati a cui era stato rapito un figlio potevano sperare nell’intercessione e nella consolazione di san Nicola, protettore dell’infanzia.

Il culto del santo fu molto diffuso nel territorio beneventano e nella città di Sant’Agata de’ Goti. La diffusione, che generalmente si crede successiva alla traslazione delle reliquie del santo nella città di Bari (9 maggio 1087), ha invece origini più antiche. Tanto era radicata in Campania la venerazione per questo santo che, prima del 1096, a Benevento fu composto il libello Adventus S. Nycolai in Beneventum60 per testimoniare come, nonostante Bari ne possedesse il corpo, san Nicola fosse solito compiere miracoli principalmente nella città campana. L’opera ci informa che anche due abitanti di Sant’Agata de’ Goti, un uomo affetto da cefalea e suo figlio gobbo, consigliati da parenti e amici di andare a Benevento presso la chiesa di S. Nicola e fiduciosi nell’intervento taumaturgico del vescovo di Mira, guarirono miracolosamente61.

Ma la competizione che opponeva le città di Benevento e di Bari coinvolgeva anche san Nicola ed altri santi locali. Degno di nota, poiché interessa proprio il territorio saticolino, è un particolare spirito di antagonismo che interessò il culto di san Menna del Sannio. L’eremita, vissuto nel VI secolo sul monte Taburno e venerato nella stessa Sant’Agata de’ Goti – dove si può ancora ammirare la chiesa a lui dedicata -, fu ritenuto un diretto antagonista di Nicola di Bari62. Leone Marsicano narra di una donna lombarda che decise di portare il figlio demente presso la tomba di Nicola, a Bari. Giunta nella chiesa, esausta dal viaggio, dalle preghiere recitate e dalle lacrime versate, si addormentò davanti all’altare. In sogno le apparve un uomo vestito di bianco che la rimproverò di perdere tempo, perché suo figlio avrebbe potuto essere curato da san Menna. Si recò dunque sul monte Taburno, presso Sant’Agata de’ Goti, ma saputo che le reliquie del santo erano state traslate, si recò a Caiazzo. Durante il cammino, non ancora giunta presso il santuario, suo figlio guarì63“.

Nonostante gli sforzi apologetici dei sostenitori di san Menna, a poco valsero i tentativi di espugnare il culto di Nicola di Bari: la chiesa della SS. Annunziata – che si trova a pochi metri da quella dedicata a san Menna -ci offre ancora testimonianza di affreschi votivi dedicati al vescovo di Mira, ma nulla che onori la memoria del santo saticolino.

Chiude le serie degli affreschi della parete absidale destra il ritratto di un santo diacono, di incerta identificazione, vestito di bianco e con la palma del martirio. È possibile che si tratti di san Vincenzo, diacono e marti re del IV secolo. Tale fu la devozione nei suoi riguardi che a lui fu dedicata la famosa abbazia presso il fiume Volturno, non lontano da Sant’Agata de’ Goti, il cui fiume, l’Isclero, ne è affluente.

Gli affreschi dell’abside nel loro insieme e, in particolare, i tabelloni istoriati possono essere interpretati come una sorta di «antologia» della cultura agiografica campana medievale. In essa prevalgono figure di santi dei primi secoli cristiani, martiri, santi originari del mondo orientale64.

Attraverso queste immagini i fedeli imparavano a conoscere, o riportavano alla mente, le gesta dei loro eroi spirituali. Gesta che corrispondono sostanzialmente ai miracoli, all’intervento soprannaturale su cui la devozione popolare confidava in caso di malattie, insidie della natura, ingiustizie della società, possessioni diaboliche.

Il santo, mediatore tra cielo e terra, guarisce malati e libera prigionieri. Attraverso l’esorcismo allontana i demoni e reintegra gli ossessi, visti dalla società con sospetto, come un pericolo sociale da emarginare.

Per stabilire un contatto, una relazione con il santo e poter beneficiare delle sue virtù, il fedele pronunciava delle invocazioni, delle preghiere, a cui seguiva un voto che implicasse una offerta. Questi affreschi, commissionati per lo più come ex-voto, sono una testimonianza tangibile di questa pratica devozionale.

 

Note

1  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed. italiana a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, p. 60.

2  San Leonardo è ritratto anche nel Giudizio Universale, tra le schiere dei beati.

3  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 848.

4  L’ipotesi è suggerita sia dalla consuetudine che vede spesso membri di una stessa famiglia ri­tratti a margine di affreschi votivi, sia dagli abiti del personaggio maschile ritratto per

secondo. Egli è un ragazzo, perché indossa una gonnella corta che mette in vista le calze, secondo la moda dei giovani del tardo Trecento. L’uomo che lo precede ha invece abiti

lunghi, da adulto: questo farebbe supporre che tra i due ci sia un legame padre-figlio.

5  Ada Sanctorum (da ora in avanti indicato con AA. SS.) lanuarii, t. II, Venetiis 1734, pp. 120-141.

6  AA. SS. lanuarii, t.I, Venetiis 1734, pp. 604-607.

7  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., pp. 113-114.

8  AA. SS. lanuarii, t.I, cit., pp. 604-607, citazione a p. 607.

9  Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. II, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1962, coli. 106-136, in particolare coli. 114-115.

10 L’ergotismo è un’intossicazione dovuta alla segale cornuta, cioè contaminata da un fungo tossico).

11  Cfr. A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 69.

12 Del personaggio di Adeodato si parlerà in seguito, in relazione ad altri affreschi su san Nicola.

13 Dove tolet sta per «tollit».

14 A. Vuolo, La nave dei santi, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, a cura di G. Vitolo, Liguori, Napoli 1999, pp. 57-66.

15 Victor Vitensis, Historia persecutionis Africanae provinciae, a cura di M. Petschenig, Vindobonae 1881 (Corpus criptorum Ecclesiasticorum Latinorum, VII), p. 8, citato ivi, p. 63. Per
l’edizione italiana: Vittore di Vita, Storia della persecuzione vandalica in Africa, a cura di S. Costanza, Città Nuova, Roma 1981 (Collana di testi patristici, 29), pp. 34-35.

16 Sul rapporto tra topos agiografico e Historia persecutionis Africanae provinciae scrive Antonio Vuolo: «Peraltro, a conferma di questa correlazione, mi sembra significativo che le più

importanti testimonianze manoscritte dell’opera di Vittore di Vita risalgano ai secoli IX e XII, cioè appunto al periodo nel quale la nostra tematica con le sue varianti si propagò in area

campana. D’altra parte, c’è da chiedersi se la diffusione di questa tematica sia stata provocata solo da uno stimolo letterario oppure abbia avuto anche una motivazione storica. In realtà

credo  che i due aspetti siano correlati, perché di solito ogni testo conserva, al di là delle sollecitazioni imposte dal proprio genere letterario, le tracce di eventi esterni. Nel nostro caso la

circostanza contingente potrebbe identificarsi con l’insicurezza delle coste campane provocata tra i secoli IX e X dalle frequenti incursioni saracene, a motivo delle quali le popolazioni

rivierasche furono costrette a scorgere nel mare non più tanto una risorsa per la loro sopravvivenza, quanto invece la causa di un timore quotidiano. Allora, è probabile che proprio per

esorcizzare questo incombente pericolo, peraltro già contrastato in quello stesso arco di tempo da varie e ben note iniziative militari, culminate nella famosa distruzione del temibile

insediamento saraceno alle foci del Garigliano nel 915, l’agiografia campana abbia cominciato a far ricorso al tema della nave dei santi e della sua prodigiosa navigazione»: La nave dei 

    santi, cit., p. 63.

17 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. X, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1968, coli. 1114-1117, in particolare col. 1115; Bibliotheca Casinensis, III, Florilegium, Montecassino 1877,

pp. 373-374; AA. SS. Septembris, t. I, Parisiis et Romae 1868, pp. 99-107, in particolare pp. 209-219.

18 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. X, cit., col.. 1114-1116; ivi, vol. III, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1963, col. 945; AA. SS. Septembris, t. I, cit., pp. 209-219.

19 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. IV, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1964, coli. 1288-1290; AA. SS. lunii, t. I, Venetiis 1741, pp. 211-219.

20 Cfr. nota 16.

21 L’ipotesi non risolve del tutto l’interpretazione dei due riquadri: in particolare le versioni della passione di sant’Erasmo non dicono che il santo fu gettato in mare dai soldati imperiali. Unascena

simile al primo riquadro è raffigurata sul candelabro pasquale (XIII secolo) del duomo di Gaeta, in cui in quarantotto quadri sono raffigurate scene della vita di Gesù alternate, secondo una

disposizione bustrofedica, a scene della vita di sant’Erasmo. In particolare, la traversata del mare Egeo vede l’angelo e il santo su una nuvola, mentre in basso è ritratto il mare ondoso, ricco di

pesci, con due barche in balia dei flutti. A lato è stata scolpita una prigione vuota, ad indicare la fuga miracolosa dal carcere. Non ci sono, come nella chiesa della SS. Annunziata, dei soldati che

gettano in mare il vescovo. Cfr. M. Pippal, Der Osterleuchter des Doms S. Erasmo zu Gaeta, in «Arte medievale», II (1984), p. 203, fig. 7. Gli studi sulla tradizione manoscritta della passione

di sant’Erasmo denunciano inoltre molti dettagli in comune con quella di Canione di Atella, e in generale con le passioni di antichi martiri. Una notevole fluidità narrativa, che utilizza luoghi

comuni ed episodi leggendari attribuendoli a santi diversi, caratterizza la produzione agiografica campana del IX-X secolo, rendendo assai difficile discriminare, nel campo dell’iconografia, un

santo da un altro. Cfr. G. Desantis, Il culto di s. Erasmo fra Oriente e Occidente, in «Vetera Chri-stianorum», 29 ( 1992), fase. 2, pp. 269-304; F. Dolbeau, Le dossier de saint Canion d’Atella. 

     A pro-pos d’un livre récent, in «Analecta Bollandiana», 114 (1996), pp. 109-123. Sulle diverse versioni della vita di sant’Erasmo cfr. V. von Falkenhausen, Problemi di traduzione di testi

     agiografici nel Medioevo: il caso della Passio sancti Erasmi, in Santità, culti, agiografia. Temi e prospettive. Atti del I Convegno dell’AISSCA, Poma 24-26 ottobre 1996, a cura di S. Boesch

     Gajano, Viella, Roma 1997, pp. 129-137.

22 Si veda in proposito G. Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Sansoni, Firenze 1952, col. 290, fig. 331.

23 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 927: «Lei stessa visitava i malati: la compassione per gli infelici tanto le toccava l’anima che cercava i loro alloggi e li visitava con premura…»;

Bibliotheca Sanctorum, voi. IV, cit., coli. 1110-1124.

24 Cfr. Bibliotbeca Sanctorum, vol. III, cit., coll. 158-70; AA. SS. Februarii, t. I, Parisiis et Romae 1858, pp. 331-353.

23 P. Baglioli, Il santo e gli animali nell’Alto Medioevo, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo. Atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di Studi sull’Alto

     Medioevo, Spoleto 7-13 aprile 1983, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1985, pp. 935-993, in particolare pp. 975-976.

26 Ivi, pp. 980-981.

27 G. Ortalli, Lupi, genti, culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1997, p. 52.

28 Ivi, p. 53. «Nella visione ‘paradisiaca’ del deserto non bisogna dimenticare la familiarità di quanti vivono, o vi si ritirano, con gli animali selvaggi. È il modello di Antonio e di Paolo, che, in

mancanza di leoni in Occidente, fanno dell’orso, del cervo, dello scoiattolo gli amici e gli interlocutori degli eremiti»: J. Le Goff, Il deserto foresta nell’Occidente medievale, in Id.,

Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 25-44, p. 31.

29 A4. SS. Februarii, t.I, cit., p. 340.

30 L’artista che ha realizzato gli affreschi sulla vita di san Biagio sembra seguire la versione della leggenda agiografica in cui Biagio compie il «miracolo della lisca di pesce» mentre è in prigione e

non lungo il suo itinerario alla volta di Sebaste: cfr. hi, p. 350.

31 Cfr. Bibliotbeca Sanctorum, vol. IX, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1967, coli. 1252-1271; AA. SS. Octobris, t. LX, Parisiis et Romae 1869, pp. 173-281; Iacopo da Varazze, Legenda Aurea,

     cit., pp. 863-867.

32 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 864.

33 «Tutti però protestarono, pensando che gli avesse dato di volta il cervello, dato che voleva lasciare la gloria del pontificato correndo dietro a quelle donnette pazze; egli però non si piegò, e

nominò un sant’uomo, di nome Ameto, al suo posto: per il fatto d’aver lasciato la sede pontificia senza il consenso degli altri, il suo nome fu cancellato dal clero dalla lista dei papi, e quel

grancoro di vergini perdette dal quel momento tutto il favore di cui godeva alla corte di Roma»: ivi, pp. 864-865.

34 Antonio Vuolo vede nella leggenda di santa Orsola e della sua nave con migliaia di vergini una variante del tema della nave dei santi: «Se il tema della nave dei santi, con le sue varie sfumature

finora segnalate, si rintraccia nei testi agiografici campani al massimo fino al XII secolo, è pur vero, tuttavia, che tale tematica con maggiori o minori analogie sopravvive altrove. Per

esempio,  in una forma molto simile al racconto campano, essa si ritrova nella Vita di s. Marta e nella Vita di s. Lazzaro, diffuse verso la fine del XII secolo in area provenzale, dove

probabilmente entrambi i testi furono composti; oppure il medesimo tema è ravvisabile, seppur in sottofondo, nella cosiddetta ‘Ursula Schifflein’ ovvero la ‘navicella di sant’Orsola’,

che fu il nome adottato da   numerose confraternite tra i secoli XIV-XV nei territori dell’Impero, in ricordo della prodigiosa navigazione che l’omonima martire avrebbe intrapreso

dalla Bretagna verso quelle terre con il suo  spettacolare corteo di undicimila vergini»: Vuolo, La nave dei santi, cit., pp. 64-65.

35 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 866.

36 Historia Beati Nicolai de Tolentino ordinis fratrum heremitarum Sancti Augustini composita a fratte Vetro de Monte Rubiano lectore anno MCCCXXVI tempore domini]ohannis 

     Papae XXII,   in AA. SS. Septembris, t. III, Venetiis 1761, pp. 644-664.

37 Cfr. Il Processo per la canonizzazione di san Nicola da Tolentino, ed. critica a cura di N. Occhioni, Padri Agostiniani di Tolentino-Ecole Francaise, Tolentino-Rome 1984,

Teste n. 327, p. 616.

38 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit., cap. IlI, par. 24, p. 648.

39 Negli atti del Processo di canonizzazione, nella sezione Documenta et mandata, si riassumono così le molteplici azioni miracolose del santo: «[…] fuit expositum coram nobis et

fratribus  nostris, etiam cum frequenti instantia et pluries reperita, quod recolende memorie Nicolaus de Tholentino ordinis heremitarum sancti Augustini, Camerinensis diocesis, diutius

in eodem ordine laudabiliter conversatus, sanctitatis nitore dum vixit emicuit, vita et conversatione resplenduit, ac magnis et multis tam ante quam post obitum eius, in resuscitatione

videlicet mortuorum et diversorum curatione morborum, effugatione demonum, illuminando etiam cecos, et liberando captivos, surdis auditum et variis miraculis coruscavit»:

Il Processo per la canonizzazione di san Nicola da Tolentino, cit., pp. 3-4.

40 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit., cap. VIII, par. 80, p. 663.

41 Le testimonianze sono numerosissime: rimando alla sintesi, redatta come prolusione alle testimonianze del Processo di canonizzazione, citata alla nota 39.

42 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit, cap. II, parr. 10-12, pp. 646-647.

43 Le scene che riproducono la liberazione dell’anima di frate Pellegrino e dell’indemoniata sono molto simili a quelle affrescate nel XV secolo a Napoli, nella chiesa di S. Giovanni in

Carbonara. Cfr. G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Sansoni, Firenze 1965, fig. 984, col. 823; fig. 986, col. 826.

44 Cfr. F. Bisogni, Il pubblico di san Nicola di Tolentino: le voci e i volti, in Il pubblico dei santi. Torme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici, Viella, Roma 2000, pp. 227-250.

Sulla relazione tra «messa di san Nicola» e le pratiche precedenti scrive Bisogni: «E questo l’unico evento prodigioso, se tale si può dire, di Nicola in vita presentato in questo ciclo

[Cappellone di Tolentino] ma di grande importanza per l’attrattiva del pubblico. Da esso infatti deriva la pratica secolare della ‘messa di san Nicola’ per le anime purganti, riduzione

più economica in ogni senso, e quindi concorrenziale, della più antica ‘messa di san Gregorio’ celebrata sempre per le anime purganti ma che, per condurre a buon fine, doveva essere

celebrata dallo stesso sacerdote, sullo stesso altare, per trenta giorni ininterrotti»: ivi, pp. 232-233.

45 È l’interpretazione data da George Kaftal ad un affresco umbro (secolo XV) – del tutto simile a questo oggetto del nostro studio – che propone le storie di Nicola da Tolentino.

Cfr. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools cit., fig. 991, col. 828.

46 Il riconoscimento della santità di Nicola da Tolentino da parte della Chiesa ebbe invece un corso meno rapido: papa Bonifacio IX concesse l’indulgenza ai pellegrini che si recavano

a Tolentino e si occupò del Processo di canonizzazione senza riuscire a terminarlo, nel 1390, con la bolla Splendor paternae gloriae, e nel 1400, con la bolla Licet is de cuius. 

     La bolla di canonizzazione, Licet militans, risale invece a papa Eugenio IV, che la emanò nel 1446: Bibliotheca Sanctorum, vol. IX, cit., coll. 953-968.

47 «Di immagini di donatori è cosparsa, come si è detto, l’intera superficie affrescata, e questo è un primo pubblico assai qualificato, come la regina nella prima scena in alto, quella

dell’Annunciazione, che altra volta ho proposto di identificare come Sancia di Maiorca sposata nel 1304 a Roberto d’Angiò che diviene re nel 1309. La sua pietà era grandissima e

le sue spese di carattere religioso così ampie che il re: dichiara che l’erario pubblico è estraneo alla prodigalità maniacale della consorte. Dal Processo sappiamo che il culto

di Nicola era esteso anche a Napoli»: Bisogni, Il pubblico di san Nicola di Tolentino cit., p. 235.

48 Guglielmo da Vercelli scelse l’abito bianco perché concorde con la corrente monastica di Citeaux e Camaldoli, contrapposta a quella di Cluny che aveva optato per il nero.

Cfr. Bibliotheca Sanctorum, vol. VII, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1966, coll. 487-489; AA. SS. Iunii, t. V, Venetiis 1744, pp. 112-139.

49  A4. SS. Iunii, t. V, cit., pp. 112-139.

50  Ivi, p. 117.

51  F. Viparelli, Memoria Istorica della Città di Sant’Agata dei Goti, Napoli 1841, p. 60.

52  Si veda C.W. Jones, S. Nicholas of Myra, Bari and Manhattan, University of Chicago Press, Chicago 1978 (trad. it., San Nicola. Biografia di una leggenda, Laterza, Roma-Bari 1983).

53  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., pp. 26-33, citazione a p. 26.

54  Si veda ad esempio l’ultima scena del tabellone istoriato di sant’Antonio abate.

55  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 27.

56  Ivi, p. 33.

57  Jones, San Nicola cit., pp. 80-82.

58  Ivi, p. 82.

59  Cfr. A. e C. Frugoni, Storia di un giorno cit., pp. 135-141.

60  Adventus Sancti Nycolai in Beneventum, a cura di G. Cangiano, in «Atti della Società storica del Sannio», II (1924), pp. 131-162.

61  Ivi, p. 141.

62  Leone Marsicano, Vita S. Mennatis, PL, CLXXIII, coli. 989-993.

63  Ibid.; citato da Jones, San Nicola cit., p. 213.

64  Cfr. Vuolo, La nave dei santi, cit., pp. 57-58.

Chiesa SanMenna

Chiesa SanMenna

Celebrazione giubilare per il IX centenario della consacrazione della Chiesa di San Menna per le mani del Papa Pasquale II A.D. 1110-2010

“Uomo venerabile”, come lo definisse S.Gregorio Magno (590 – 604), vissuto nel VI secolo nel Sannio Beneventano, al tempo della conquista longobarda.

In quel tempo le chiese subirono soprusi e persecuzioni, e molti cristiani furono fatti schiavi o costretti a fuggire.Il nostro Santo preferì rifugiarsi sul monte, in solitudine, dedicandosi alla pre­ghiera e alla penitenza.

Questo stile di vita attirò molti de­voti e fece presa anche sui barbari, tanto che alcuni di questi si convertirono al Van­gelo.

Fatto segno di unanime venerazione, Menna morì nel suo romitorio alle falde del monte Taburno presso Vitulano (Bn) verso il 583 d.C. Il luogo divenne presto meta di culto e di pellegrinaggio.

Fu fatta costruire, come cappella del castello, dal conte Roberto il normanno, figlio di Rainulfo, tra il 1102 e il 1107, e fu dedicata all’apostolo Pietro, come ricordano i versi scolpiti sul portale della Chiesa:

CRIMINA DIMITTAT – QUI LIMINIS ALTA SUBINTRAT

TEMPLUM SI POSCAT – SUB PETRO PRINCIPE NOSCAT

QUOD CUM FUNDASTI – ROTBERTE COMES DECORASTI

Il 4 settembre 1110 papa Pasquale II, durante un viaggio apostolico inteso a stipulare patti di alleanza coi principi normanni, fu ospite del conte Roberto e consacrò la chiesa “in onore del Signore Salvatore e della Santa Vergine Maria e della Santa Croce e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di San Menna Confessore”, come si evince dalla lapide ancora oggi murata all’ingresso.

Leone Marsicano, cronista dell’abbazia di Montecassino, per incarico del conte Roberto see, ha raccontato la  storia del  ritrovamento del corpo di San Menna e la sua traslazione a Sant’Agata.

Nel 1094 lo stesso conte, volendo dotare di reliquie insigni la cattedrale di Caiazzo, dietro suggerimento di Madelmo, abate di Santa Sofia in Benevento, e di Guiso, abate di San Lupo, si recò in una chiesetta semidistrutta nei pressi di  Vitulano ove, dopo numerose difficoltà, rinvenne il corpo intatto di San Menna e lo fece tra­sportare nella suddetta cattedrale.

Dopo qualche tempo Roberto, per contrasti insorti col vescovo caiatino, decise di trasferire le sacre reliquie nella sua cappella comitale di Sant’Agata. Furono collocate in un’urna, ove fu inserita una lapide con la seguente scritta:

HIC REQUIESCIT

CORPUS BEATI

MENNE CONFESSORIS

Nell’urna furono deposte, separate dalle prime, anche altre reliquie, in particolare quelle di San Brizio, vescovo di Tours e di San Socio (o Sossio) martire del Miseno. Infatti sul rovescio della stessa lapide è scritto:

HIC REQUIESCUNT CORPORA SANCTORUM BRICII ET SOCII MARTIRUM

La lapide fu posta nel mezzo del sarcofago, proprio per dividere le reli­quie di San Menna dalle altre. Infatti in essa è scritto:

DE UNOQUOQUE MEDIETAS

A seguito della profanazione dell’urna avvenuta nel 1674, le sacre reliquie furono trasportate nella catte­drale di Sant’ Agata de’ Goti e, nel 17-06, scoala de sex composte in un’elegante urna di ebano e argento, ex-voto del vescovo Filippo Albini “per grazia ricevuta”.

Il monumento si pre­senta a schema basilicale sul modello cassinese. Il portale è sormontato da una lunetta de­limitata da un archivolto. L’interno è scandito in tre navate da una doppia fila di cinque colonne, con capi­telli che sorreggono archi a tutto sesto.

L’aula liturgica, interrotta dalle lastre di recinzione del coro, è tutta rivestita di tap­peti a mosaico, restaurati accuratamente negli anni ’90. Sono completamente aniconici e in chiara dipendenza da quelli che un tempo de­coravano il pavimento della Chiesa Abbaziale di Montecassino (1071). Essi guidano il visita­tore dall’ingresso fino al presbiterio soprele­vato.

Durante il restauro degli anni ‘SO fu riscoperto l’intero colonnato nascosto all’in­terno dei pilastri posti in opera nel sec. XVIII. Sotto l’altare ottocentesco, inoltre, fu rinve­nuta una lastra view di pietra con incisa una croce greca, contornata da tralci di vite con grappoli.

Iconograficamente, essa è confrontabile con analoghi esemplari paleocristiani data­bili al VI-VII secolo, di ispirazione bizantino-ravennate.

Oggi questa lastra funge da paliotto d’altare.

Storia

Storia

Sant’Agata de’ Goti è «arroccata su un grande blocco di tufo, il blocco arcigno a forma di nave, scavato con pazienza di millenni dal bulino sottile dei due rigagnoli – il Riello e il Martorano – che proprio qui sotto confondono le acque con l’Isclero. Se la posizione delle case, le erte rampe di accesso che forano le mura, l’aspetto turrito tradiscono la città-difesa», i campanili e le cupole che svettano verso il cielo sono il segno inconfondibile di una presenza qualificata della Chiesa nella sua storia millenaria1.

Ancora oggi l’edilizia religiosa e civile del centro storico narrano le vicende, talvolta oscure e complicate, ha confermato il regista di Bicolwide, determinate dalla presenza forte e simultanea del vescovo e del conte in questa città.

Tra i tanti monumenti, la chiesa della SS. Annunziata rappresenta un capitolo particolare di questa storia. Nelle «Visite Pastorali», i manoscritti più antichi dell’archivio diocesano2, e in altri documenti conservati in quello parrocchiale3, essa è sempre associata ad un luogo di cura per poveri e ammalati, chiamato «Hospitale», di cui è nota la data di fondazione avvenuta in un contesto storico delicato e instabile4.

Nel 1229 la città di Sant’Agata, approfittando dell’assenza dall’Italia di Federico II, scomunicato dalla Chiesa, passa sotto l’autorità di papa Gregorio IX3. L’imperatore, rientrato da Gerusalemme, cerca di riconquistar­la e, poiché era morto il vescovo Giovanni III, che aveva favorito il passaggio, promuove nel 1231 l’elezione del canonico beneventano Bartolomeo alla cattedra della diocesi. Ma il papa rigetta questa nomina e respinge ogni tentativo di mediazione6.

Nel 1234 viene eletto vescovo Giovanni IV, probabile tassello di un compromesso abilmente predisposto in vista del trattato di pace stipulato nel 1237 tra il papa e l’imperatore. Infatti il vescovo chiede e ottiene da Gregorio IX il riconoscimento giuridico dell’«Hospitale extra portam civitatis» di Sant’Agata de’ Goti, da lui eretto per soccorrere i poveri e gli ammalati che erano costretti ad abbandonare il centro abitato per evitare possibili contagi.

Definito l’anno di fondazione deu”«Hospitale», ipotizzabile come un modesto edificio «de novo constructo» in un non precisato «fundo ecclesiae» – come recita la bolla di Gregorio IX7 -, resta il problema dei tempi e delle modalità della costruzione dell’«Ecclesia» annessa.

Le avare notizie reperite fino ad oggi, lette e interpretate nel contesto del tempo, inducono a pensare che essa, prima di essere realizzata in un progetto ben definito, sia rimasta nelle buone intenzioni per tutto il secolo XIII. In questo periodo, infatti, si rinnovano le tensioni tra Stato Pontificio e Regno di Napoli e, di riflesso, tra vescovo e conte di Sant’Agata.

Già il successore del vescovo Giovanni IV, il francescano Pietro (1253-1255), nominato da Innocenzo IV in virtù dei suoi meriti diplomatici, è costretto a vivere fuori sede per motivi politici. Sorte migliore non è riservata a Nicola da Morrone (1266-1274), sospettato e sottoposto ad inchiesta perché ritenuto sostenitore di Carlo d’Angiò durante la conquista del Regno di Napoli8.

In questo periodo, mentre la contea di Sant’Agata passa alla famiglia filoangioina degli Artus9, la cronotassi dei vescovi risulta frammentaria, forse perché il re, intento ad organizzare il suo governo a Napoli, intende levare la voce anche nei confronti della Chiesa che è in crisi (otto pontefici dal 1261 al 1286!), e quindi crea ostacoli alla successione dei vescovi stessi.

Questo clima di lotta e di sospetto non può certo aver determinato le condizioni adatte a realizzare un grande progetto di chiesa, né durante l’episcopato del già citato Nicola da Morrone, né durante quello del suo suc­cessore Eustachio (1282-1284), designato dal re e confermato dal papa, che muore prematuramente10.

Agli inizi del Trecento si registra un fatto nuovo: la cattedra vescovile, che vede insediato per oltre un ventennio il francescano Guido di San Michele (1295-1317), è intenta a definire il problema dei frati conventuali che, a causa delle incursioni dei briganti, sono stati costretti ad abbandonare il loro eremo costruito «extra moenia civitatis» e a trasferirsi «intra moenia», in attesa di un nuovo convento previsto quasi all’ombra del palazzo vescovile. In questa operazione, secondo il Ciarlanti, s’era già impe­gnato direttamente papa Clemente IV nel 1267, donando il terreno11.I lavori si protraggono durante tutto l’episcopato di Roberto Ferrano (1318-1327); il suo successore Pandolfo (1327-1342), figlio del principe di Capua, consacra la chiesa con l’annesso convento nel 132712. Questo fatto di grande risonanza per la città, a nostro avviso, potrebbe avere sollecitato il conte Carlo Artus a progettare un «Hospitale» più efficiente, congiunto ad una grande «Ecclesia» per il sostegno spirituale dei bisognosi, ovviamente «extra moenia civitatis», ma nelle immediate vicinanze del suo castello.

Gli obiettivi che egli si sarebbe proposto potevano essere diversi; anzi­tutto, affermare l’autonomia del potere laico rispetto a quello ecclesiastico; poi, rendersi promotore di un’opera di alto profilo cristiano, per assicurarsi la benevolenza dei sudditi e la simpatia della Chiesa; inserirsi, infine, nel filone politico-culturale che a Napoli e nel Regno sta portando alla fondazione di opere caritative laiche denominate AGP {Ave Gratta Piena), annesse sempre ad una chiesa dedicata all’Annunziata13.

Un fatto è certo: nel primo trentennio del secolo XIV la chiesa del­l’Annunziata e gli eventuali presbìteri che vi avrebbero esercitato il ministero non compaiono nell’elenco di chi versa la decima allo Stato Pontificio14. Dato il regime fiscale del tempo, potrebbe considerarsi segno non trascurabile che la «Ecclesia» non fosse stata ancora realizzata. Rispetto a questa ipotesi, il complesso «AGP-SS. Annunziata-Hospitale» viene inaugurato agli inizi della seconda metà del Trecento, come del resto affermano i manoscritti dell’archivio diocesano che parlano di «chiesa di patronato comunale fondata dai cittadini che la dotarono e nella sua fondazione avvenuta nel 1354 vi furono stabiliti 16 Cappellani corali»13.

A distanza di qualche decennio dall’inaugurazione, su committenza in gran parte laica, vengono realizzati nella chiesa interventi di notevole interesse artistico. Infatti, alla fine del Trecento sulle pareti dell’abside vengo­no rappresentati, a carattere votivo e didattico, una serie di santi con miracoli e storie della loro vita e scene dell’infanzia di Gesù, mentre agli inizi del secolo successivo il possibile Ferrante Maglione, o il probabile «Mae­stro Marco», traduce in delicate e «cortesi» immagini il Giudizio Univer­sale sulla controfacciata della chiesa16. Infine, verso il 1483 viene commissionata ad Angiolillo Arcuccio la pala d’altare con due predelle, raffigurante il mistero dell’Annunciazione e scene del Vangelo con figure di santi1 ‘. La sua ubicazione sulla parete centrale dell’abside coprirà, purtroppo, parte degli affreschi trecenteschi.

Intanto, un frammento di cedole della tesoreria di Alfonso I del novembre 1441 documenta un saccheggio ai danni della chiesa18.

Nel 1531, durante l’episcopato di Giovanni de Guevara (1523-1556), si evidenzia una forte tensione tra autorità ecclesiastica e civile circa lo «ius patronatus» sulla fondazione dell’«Ecclesia-Hospitale». Il vescovo, infatti, rivendicando su di essa i suoi diritti in virtù della bolla di Gregorio IX, anche per attribuirsi le rendite che ammontano a circa 1.000 ducati, cerca di prenderne possesso per mezzo del suo vicario. Ma gli amministratori, e con loro il collegio dei cappellani, fanno dura opposizione sostenendo il contrario e, quando diventa impossibile qualsiasi dialogo, usano maniere forti e sbrigative, cacciando brutalmente dalla chiesa i rappresentanti del vescovo. Lo riferisce un documento dell’epoca: «il Conte et hominj de ditta terra (cita di Santa Aghata) per forza armata manu, senza esecutoriale regio come si convene et cacciato il suo vicario da ditta ecclesia con violentia ponendoli mano in petto ad causa che contradicea al pigliare dela possessione»19. Ti presule, per mira risposta, interdice la chiesa, sottopone a scomunica gli autori materiali del fatto e commina censure e pene ai cappellani. Quindi, rivolge istanza alla «Gran Corte della Vicaria» per chiedere giustizia.

A suo dire, durante il processo la controparte produce «scrìpture et testimoni falsi», ma egli, ritenendo di vincere il contenzioso, sollecita la «Gran Corte del Regno» ad emettere la sentenza, per essere risarcito della violenza subita e far rientrare nella sua giurisdizione la chiesa. Il conte e gli amministratori non si arrendono. Mentre cercano di ritardare il verdetto del tribù naie, inoltrano una supplica a papa Clemente VII, perché d’autorità faccia giustizia sul caso e annulli le scomuniche e le pene comminate dal vescovo.

Il pontefice predispone la risposta, ina muore prima di poterla attuare. Tocca al suo successore. Paolo III, definirla con un «diploma apostolico» che invia «Sindico et electoribus ac eomiminitati Civitatis Sanctae Agathae» il 3 novembre del 1534. Con questo documento si riconosce che la Università* Civitatis, per la singolare devozione verso la gloriosissima Madre di Dio sempre Vergine, ha fatto costruire «ab immemorabili tempore» la chiesa dell’Annunziata con l’annesso «Hospitale», ha amministrato in modo prudente e saggio ed ha assicurato, e ancora assicura, il servizio di carità agli ammalati e ai poveri, scoraggiando le mire di qualche chierico che l’avrebbe voluta come «beneficio ecclesiastico». Paolo III annulla pertanto ogni scomunica, dichiara sospese le pene comminale dal vescovo e decreta l’esclusiva giurisdizione laica sulla «Hcclesia-Hospitale» per il presente e per il futuro20.

Solo qualche mese prima, nel giugno dello stesso anno, Giovanni de Guevara taceva ancora verbalizzare nella visita pastorale, in chiaro riferimento alla bolla del 1257. che «Ecclesia est Hospitale in quo nutriuntur et vivunt filii qui occulte dimittuntur a parentibus et est subiecta et submissa Mensae Episcopali proni patet in bulla quae incipit Gregorius episcopus…»21. Ma. dopo qualche anno, apre un altro contenzioso per rivendicare dagli amministratori della chiesa le tasse da corrispondersi in occasione della visita pastorale, cioè il «subsidium caritativum» e le «procurationes». Nel 1546 raggiunge il suo scopo, ma «non sine sanguine»22.

A seguilo di questa tensione, che avrà avuto ovvie risonanze nell’opinione pubblica, la Universitas Civitatis. per riaffiermare la sua autorità e recuperare il consenso popolare, commissiona, e pone in opera nel 1564. il portale marmoreo della chiesa, con un non meno importante portone intagliato. Ai cappellani della chiesa, che hanno sostenuto la causa, viene dato di svolgere il servizio liturgico in un artistico coro ligneo intagliato. E. mentre ai lati del portale si evidenzia lo stemma della città con la protettrice sant’Agata e la sigla AGP, una grande epigrafe, murata a sinistra, celebra con enfasi l’evento, ricordando ai posteri i nomi dei governatori della città e quello dei prefetti dei cappellani23. Anche questo intervento artistico, purtroppo, danneggia alcuni affreschi.

Nel periodo che va dal 1538 al 1570 non sono documentate visite pasto­rali, e quella del 1571 non fa alcun cenno alla importante realizzazione24.

Intanto gli amministratori, per ampliare la finalità caritativa dell’opera, continuano ad erigere nella chiesa alcune cappelle. Già nel 1534, in quella dedicata a S. Giacomo apostolo, patrono dei pellegrini, è operante una confraternita incaricata di assistere coloro che, percorrendo la via Appia, si dirigono verso il santuario di S. Michele al Gargano o verso altri luoghi di culto e di preghiera.

Nel 1571 viene costruita la terza cappella entrando a destra, affidata ad una confraternita che vi istituisce il «Monte di Pietà», una risposta carita­tevole al problema di quanti finiscono nel giro dell’usura. L’epigrafe di fondazione, oggi perduta, è riportata nella visita pastorale del vescovo Albini avvenuta nel 1701, mentre ancora oggi è esposta alla venerazione dei fede­li la tela che ornava l’altare. Essa rappresenta la Pietà con l’apostolo Giovanni, Giuseppe di Arimatea e la Maddalena.

Dopo qualche anno viene eretto, sulla destra della navata, un altare in onore di santa Maria di Costantinopoli, ove frammenti di affreschi scoperti durante i lavori di restauro, volutamente risparmiati quando furono co­perti da intonaco, sono di un artista non del tutto sprovveduto e rivelano il volto della Madonna col Bambino, di sant’Antonio di Padova, di alcuni puttini e parte del mantello di san Martino di Tours.

Intanto dalla spagnola Granada, dove Giovanni di Dio ha istituito qualificati centri di accoglienza per gli ammalati, si sta irradiando in tutta l’Europa un esempio di «ospedale organizzato secondo criteri di efficienza e di previdenza, legato soprattutto ad un altissimo amore per il prossimo, che si nutre di preghiera e di devozione», superando l’idea di ospedale inteso come «luogo di segregazione più che di cura, di isolamento più che di assistenza»25. Gi amministratori della «Ecclesia-Hospitale», con intuito profetico, invitano i «Fatebenefratelli» (così si chiamerà il nuovo ordine di Giovanni di Dio) a dirigere e animare la nostra fondazione di carità.

Con la convenzione firmata a Napoli il 19 febbraio 1591 davanti al giudice Giovanni Battista Pacifico, il magnifico Pompilio Calandrella, medico, e gli eletti Narciso Mellusio e Giulio Stampolillo affidano alF«ordine Sancta Maria de Pace, alias de Giovanni de Dio» nella persona di «Frate Didaco de la Cruce», procuratore generale, la cura degli ammalati e la responsabilità dei «medici» e «barbitonsores», e si obbligano a versare ogni anno ai frati «200 de carolenis» in contanti o in natura. I frati, da parte loro, si impegnano a far celebrare ogni giorno una messa nell’infermeria e a prestare, con bontà e diligenza secondo il carisma del loro fondatore, le cure necessarie agli infermi e ai poveri. Per confortare la brillante iniziativa, la duchessa Cornelia Pignatelli dona un fabbricato con giardino per un eventuale ampliamento dell’«Hospitale», e istituisce un’attrezzata «aro-matarìa» (spezieria) per la cura degli ammalati. Per consentire, infine, un luogo per la preghiera e, all’occorrenza, una pia sepoltura, viene concessa ai frati la prima cappella della chiesa intitolata a «Nostra Signora del Rifu­gio», costruita quattro anni prima26.

A coronamento del secolo, nel 1596, come si rileva da un’incisione rinvenuta sulla base dell’attuale torre campanaria, viene inaugurato il maestoso campanile, voluto dal vescovo Evangelista Pelleo nel 1593, per sostituire quello più modesto e ormai fatiscente documentato nel 153 827. Il Cinquecento dunque, tra luci e ombre, resta un secolo di grandi realizzazioni artistiche e caritative per la SS. Annunziata.

Anche il Seicento lascia alcune tracce significative nella chiesa. Per evitare la possibilità di eventuali contagi a causa delle pestilenze, nel 1608 il vescovo Ettore Diotallevi invita a scialbare la chiesa, raccomandando il rispetto per gli affreschi «ne cooperiantur figurae depictae». Però, quando nota che l’organo a canne è «devastatum», ordina di farlo riparare e di sistemarlo sulla controfacciata, al di sopra del portone d’ingresso, operazione con la quale vengono coperti i preziosi affreschi del Cristo, della Vergine, del Battista e degli apostoli Pietro, Paolo, Andrea, insomma i personaggi principali del Giudizio Universale28.

Nel 1619, mentre i quattro figli di «Mastrantonio», cavalieri del conte di Casalduni, sono intenti a far costruire una cappella per la loro sepoltura, intitolata prima a S. Maria degli Angeli e, dal 1650, a S. Biagio, come ne fa memoria la relativa epigrafe29, il vescovo Ettore Diotallevi prende atto del restauro operato sul polittico delPArcuccio, che tra l’altro è stato inserito in una nuova cornice «satis decens, quod Rev.mus Dominus laudavit». Forse l’intervento è dovuto alla perdita delle due ante dipinte con le figure di sant’Agata e santo Stefano, che chiudevano la parte centrale del capolavoro30.

Infine, nel 1658, gli amministratori della chiesa promuovono una sottoscrizione popolare per costruire sulla sinistra un’altra cappella in onore di san Rocco, alla cui intercessione il popolo aveva affidato le sue preghiere per essere liberato dalla peste. La costruzione, iniziata nel 1659, viene inaugurata due anni dopo31. Tuttavia l’opera artistica più significativa del Seicento, ancora oggi degna di ammirazione, è il pulpito ligneo progettato da Domenico Tange e scolpito da Iacomo (o Iacopo) Bonavita nel 1644, come si evince dal retro del fregio centrale dello schienale. Realizzato per la cattedrale di Sant’Agata su committenza del vescovo Agostino Gandulfo (1635-1653), risulta situato nella nostra chiesa fin dal 1703, in sostituzione di un altro «cum pinnaculo» documentato nel 1570 e con tutta probabilità fatiscente32.

Nei primi anni del Settecento i documenti d’archivio ci offrono una descrizione dettagliata della chiesa: una grande navata coperta a «travi in-dorate» lunga 70 palmi e larga 40, con quattro cappelle sulla destra intitola­te a S. Giovanni di Dio, a S. Giacomo apostolo, alla Pietà e al SS. Salvatore, e due sulla sinistra in onore di S. Rocco e S. Biagio. Viene descritto anche il portale cinquecentesco e sono riportate tutte le epigrafi33.

Mentre il «frescante» Tommaso Giaquinto, che già sta operando nella città, realizza nel 1703 due riquadri con santi per la cappella di S. Biagio34, i cappellani avanzano la richiesta di allargare il perimetro della sacrestia per migliorare il loro servizio corale, per cui nel 1711 il vescovo Albini permette di demolire la cappella del SS. Salvatore al fine di unificare gli spazi35.

Il segno più eloquente del Settecento, tuttavia, è rappresentato dalla cappella di S. Giacomo, affidata nel 1719 per una nuova elaborazione architettonica allo scultore «dell’alma Città di Roma» Giovanni Battista Antonino, il quale si era già fatto ammirare l’anno precedente, quando per la cattedrale aveva scolpito lo splendido altorilievo raffigurante la Sacra Famiglia con sant’Anna. Per venire incontro alle sue necessità logistiche, «addì 11 marzo 1722 la Chiesa diede a censo allo magnifico Giovanni Battista Antonino una casa con orto fuori la porta del Castello attaccata alla detta Chiesa confinante con via pubblica e muri di detta Città per l’annuo canone di ducati 10»36. L’artista nel corso dei lavori sarà costretto a rivedere il progetto originario, forse per scarsità di fondi, e scolpirà la statua di san Giacomo nella cappella di S. Rocco adibita per la circostanza a laboratorio37.

Tra il 1725 e il 1740, in concomitanza coi lavori che stanno trasformando lo stile romanico della cattedrale in barocco, anche l’Annunziata subisce una «rivoluzione» nell’impianto architettonico: la copertura «a travi in­dorate» è sostituita da una volta a botte con riquadrature in gesso; al centro, il pittore Giovanni Cosenza inserisce una tela dell’Annunciazione, mentre le pareti affrescate vengono aggredite, praticando su di esse aperture luminose sia nell’abside che sulla controfacciata38.

Nel 1764 la chiesa viene eretta a sede parrocchiale per volontà di monsignore De’ Liguori al fine di venire incontro alle necessità spirituali delle famiglie disperse nelle «massarie»39. Negli anni 1770-1780 si registra l’in­tervento di Scipione Mustilli «iatrophysico», per rendere «più elegante» la struttura architettonica della chiesa stessa, come si evince dall’epigrafe40.

Purtroppo, il terremoto del 1805 mette a dura prova la statica della chiesa e provoca gravi danni nella volta a crociera dell’abside, in parte crollata e in parte lesionata e pericolosa per i fedeli che la frequentano. Incaricato del restauro è l’architetto Raffaele Mosera, il cui progetto, approvato il 24 novembre 1865, prevede tra l’altro il rifacimento dell’intonaco sulle pareti dell’abside ove sono ancora visibili alcuni affreschi. Nell’esecuzione  dei lavori, vengono irrimediabilmente sacrificate alcune icone, per le quali è documentato il lamento di chi ha assistito allo scempio: «Extra dictum arcum (maius) existebant depictae in muro bine et bine imagines S. Stephani protomartiris et S. Agathae virginis et martiris. Hodie ratione restaurationis de recenti confectae dictae Ecclesiae, non amplius existunt sed non sine lacrymatione»41.

Per l’Ottocento, oltre questo, non sono documentati interventi significativi, se non l’acquisto di due statue lignee degne di menzione: quella di san Giuseppe (1884), opera dello scultore napoletano Luigi Caputo, e l’altra di san Rocco, espressione di pietà popolare per la liberazione dalla peste del 189042.

La prima metà del Novecento, tormentata da due guerre, non annovera interventi significativi, se non il triste tentativo, per fortuna senza conseguenze, avvenuto nel 1925, di vendere il retablo dell’Arcuccio per dare «ancora maggiore impulso all’ospedale civico ed all’ospizio dei poveri»43, e quello ancora più deprecabile, progettato dai nazisti, di trasportarlo in Germania, come riferito dal parroco dell’epoca. Negli annali della chiesa resterà memorabile il 1959. Nel mese di agosto, infatti, proprio mentre si sta spolverando questo capolavoro, dalla parete si stacca un pezzo d’intonaco che svela tracce di quegli affreschi di cui s’era persa la memoria.

Il «miracolo di un restauro» avvenuto tra il 1973 e il 1977 ha riportato alla luce uno splendido e sconosciuto patrimonio di pittura napoletana del Tre-Quattrocento, sopravvissuto a tante sventure44.

Nel rispetto di una lunga e mirabile tradizione artistica, nel 1976 la chiesa si è impreziosita con le vetrate (fig. 91) di Bruno (tassinari, «il pittore che piaceva a Picasso», il quale, quando le ha donate a questa città del Sud, ha dichiarato: «sono la sola mia cosa che mi sento di affermare che è bella»45, forse perché «porta tutto il bagaglio delle emozioni, tutto l’amore per la vita e per la natura» dell’artista46.

Note

1   V. Gramignazzi Serrone, Ormai Sant’Agata non è più arcigna, in «Vie d’Italia e del Mondo», giugno 1970, pp. 540-542. Per la storia della città, sorta nel VI secolo d.C. nei pressi di Saticula, città sannitica: F. Rainone, Origine della Città di Sant’Agata de’ Goti, Napoli 1788; E.T. Salmon, USannio e i Sanniti, Einaudi, Torino 1985. Nel 971 Landolfo, metropolita di Benevento, vi  manda vescovo il presbitero Madelfrido: E Ughelli, Italia Sacra…, voi. Vili, ed. saecunda, Venetiis MDCCXXI, p. 344. La città è stata importante sede vescovile dal 971 fino alla recente riforma del 1986.

2   L’archivio storico diocesano di Sant’Agata de’ Goti sarà d’ora innanzi citato come ASD-SAG.

3   L’archivio storico parrocchiale sarà d’ora in avanti citato come ASP-AGP, SAG. Sul significato della sigla AGP vedi nota 13.

4   ASD-SAG, S. V 1, ff. 297r-394r.

5   Riccardo da S. Germano, Cronaca 1189-1243, in Cronisti e Scrittori sincroni della Dominazione Normanna nel Regno di Puglia e Sicilia, Stamperia dell’Iride, Napoli 1868, voi. II, p. 57.

6   N. Kamp, Kirche und Monarchie im Staufischen Kónigreich Sizilien, W. Fink, Miinchen 1973, pp. 286-290.

7   F. Iannotta, La chiesa dell’Annunziata in Sant’Agata de’ Goti e una inedita bolla di Gregorio IX, in «Samnium» (1982), 1-2, pp. 116-125. Riporto il passo che interessa: «Gregorius Episcopus servus servorum Dei venerabili fratri episcopo Sante Agathensis salutem et apostolicam benedictionem: consuevit apostolica sedes favorabiliter piis adesse affectibus et hiis per quae necessitati pauperum et saluti animarum consuletur assensum benivolum impertiri: cum igitur, sicut tua nobis porrecta petitio continebat, hospitale quodam extra portam civitatis Sancte Agathensis de novo per te in fundo ecclesiae tuae ad opus pauperum et infirmorum provida pietate constructo et quibusdam possessionibus ad ipsorum substentationem hospitali concessis eidem, capituli tui accedenti consensu statueris ut ipsorum tibi et ecclesie Sancte Agathensis et successoribus tuis qui prò tempore fuerint perpetuo sit subiectum, Nos, tuis iustis postulationibus inclinati quod de hospitali predicto cum assensu predirti capituli pie ac perprovide per te factum esse dinoscitur: auctoritate apostolica confirmamus et presentis scripti patrocinio communimus. […] datum Viterbii IIII kalendas mari pontificatus eius anno undecime..». All’ennesima scomunica comminata dal papa a Federico II (marzo 1239), il vescovo di Sant’Agata, Giovanni IV, prende le parti dell’imperatore e da questi viene inviato a Roma insieme col vescovo di Calvi per interporre la sua mediazione. Ma il papa non lo riceve, respingendo così ogni richiesta di conciliazione (cfr. Riccardo di S. Germano, Cronaca cit., p. 89). L’imperatore ricompenserà questo gesto, assegnando al vescovo di Sant’Agata il feudo di Bagnoli, per cui l’eletto alla cattedrale della diocesi si chiamerà in seguito «Episcopus Sanctae Agathae ac Baro Castri Balneoli»: Kamp, Kirche und Monarchie cit., p. 288.

8   Kamp, Kirche und Monarchie cit., p. 288.

9   F Viparelli, Cenno htorico di S. Agata de’ Goti… colla esposizione di sue vicende sino ai giorni nostri per servire di continuazione alle Memorie già pubblicate sulla stessa Città, M. Avallone, Napoli 1842, pp. 36-39. Secondo l’autore, la famiglia Artus corrisponderebbe a quella degli Artois, strettamente imparentata con Carlo d’Angiò e sua sostenitrice nella conquista del Regno, ma questa identità non è provata.

10  Kamp, Kirche und Monarchie cit., p. 289.

11‘ G.V. Ciarlanti, Memorie historiche delSannio, Isernia 1644 (riproduzione anastatica Forni, Bologna 1969), p. 356.

12 A. Renzi, Dissertazione storico-cronologica-biografica della Città e Diocesi di Sant’Agata de’ Goti, C. Camastro, Sora 1912, p. 24.

13 «Ave Gratia Piena» sono le prime tre parole con le quali l’angelo Gabriele si rivolge a Ma­ria di Nazaret al momento dell’Annunciazione, come narra l’evangelista Luca (1, 28). Nei docu­menti più antichi la denominazione della chiesa è «AGP-SS. Annunziata». La sigla «AGP» è ri­prodotta sul retablo dell’Arcuccio del 1487 circa (vedi nota 17) e sul portale (1564) della chiesa della SS. Annunziata. Nel secolo XVI, sul territorio della diocesi di Sant’Agata de’ Goti ci sono documentate fondazioni «AGP» ad Airola, Arienzo, Durazzano e Valle di Maddaloni. Nel 1096 il conte normanno Roberto, figlio di Rainulfo, aveva fatto costruire a Sant’Agata de’ Goti la chie­sa di S. Menna di fronte alla sua fortezza «intra moenia civitatis». La scritta, in versi leonini, sul portale di S. Menna recita: «CRIMINA DIMITTAT QUI LIMINIS ALTA SUBINTRAT / TEMPLUM SI POSCAT SUB PETRO PRINCIPE NOSCAT / QUOD CUM FUNDASTI ROTBERTE COMES DECORASTI»: G. Tescione, Roberto, conte normanno di Ali/e, Caiazzo e Sant’Agata dei Goti, s.e., Caserta 1975, pp. 9-52. Co­me già Roberto, anche l’Artus avrebbe potuto volere consegnare il suo nome alla storia della città.

14  Rationes decimarum Italiae nei secoliXIII e XIV. Campania, a cura di M. Inguanez, L. MatteiCerasoli, P. Sella, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano MDCCCCXLII, pp. 168-178.

15  ASD-SAG, Miscellanea Nuova 12, f. 219r.

16  E Navarro, Ferrante Maglione, Alvaro Pirez d’Evora ed alcuni aspetti della pittura tardogotica a Napoli e in Campania, in «Bollettino d’Arte», n. 78 (1993), p. 64. F. Abbate, Affreschi tardogotici a Maddaloni, in / segreti del Medioevo. Gli affreschi di Maddaloni, a cura di M.R. Rienzo, Maddaloni 1992, p. 9. E si veda anche E Abbate nel saggio compreso in questo volume, pp. 159 sgg.

17  R. Causa, Angiolillo Arcuccio, in «Proporzioni», III (1950), pp. 99-110; E Abbate, I. Di Resta, Le città nella storia d’Italia. Sant’Agata dei Goti, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 54.

18  «Idem lo dit dia doni a micer Marino Bellota de Santagate per cents dans fets per sacomanos a la Iglesia de la Nunciata per smena de aquelles s(olvit) VIII due.»: Fonti aragonesi, a cura degli archivisti napoletani, voi. I, Accademia Pontaniana, Napoli 1957, p. 119.

19  ASP-AGP, SAG, Processus prò Curia episcopali contra Economos Sanctissimae Annuntiatae Civitatis Sanctae Agathae, 1546, ff. lr-15r.

20  II documento, finora inedito, è copia dall’originale, autenticata dal notaio Giovanni De Mauro di Airola nel 1534. ASP-AGP, SAG, Processus prò Curia episcopali contra Economos Sanctissimae Annuntiatae Civitatis Sanctae Agathae, 1546, ali. 2. Lo trascrivo: «Paulus Episcopus, servus servorum Dei dilectis filiis Sindico et electoribus ac communitati Civitatis Sanctae Agatae salutem et apostolicam benedictionem.

Rationi congruit et convenit honestati ut ea quae de Romani Pontificis gratia processerunt, li-cet eius superveniente obitu litterae Apostolicae super illis confectae non fuerint, suum conse-quantur effectum.

Dudum siquidem felicis recordationis Clementi Papae VII Praedecessori Nostro prò parte vestra exposito quod licet ab immemorabili tempore citra vos singulari devotione quam ad glo-riosissimam Dei Genitricem semper Virginem Mariam gerebatis ducti in Civitate Sanctae Agathae unam Ecclesiam sub invocatione eiusdem Sanctae Mariae Annuntiatae et unum Hospitale rite construi fecissetis, ac ex tunc vos seu a vobis prò tempore deputati Ecclesiam et Hospitale huius­modi administravissetis, rexissetis et gubernavissetis, nec non in ipsa Ecclesia missas et alia divina officia per capellanum a vobis deputatum celebrari fecissetis, elemosinas et oblationes inibì prò tempore erogatas in hospitalitatem ipsius Hospitalis convertendo nihilominus dubitabatis ne in posterum aliqui clerici cupiditate ducti Ecclesiam et Hospitale huiusmodi in beneficium ecclesiasticum erigi procurent, ac pretextu erectionis huiusmodi illorum fructus oblationes et bona usurparent et vos in defendendo eorumdem Ecclesiae et Hospitalis iura plures perturbationes et lites substinere cogeremini in grave prejudicium et dispendium non solum Ecclesiae et Hospitalis praedictorum, sed etiam pauperum et miserabilium personarum in ipso Hospitali piam sub-stentationem recipientium ac prò parte vestra eidem Predecessori humiliter supplicato, ut super his opportune providere de benignitate Apostolica dignaretur, praefatus Praedecessor qui singu-lorum piorum locorum conservantiam et miserabilium personarum piam substentationem piis de-siderabat affectibus, vos et singulos vestrum a quibusvis excomunicationis suspensionis et inter­dica aliisque ecclesiasticis seu sententiis censuris et poenis a iure vel ab nomine quavis occasione, vel causa latis si quibus quomodolibet innodati existentibus ad effectum infrascriptorum dum-taxat consequendum absolvens et absolutos fore censens huiusmodi supplicationibus inclinatus sub datum IV Kalendas Maii Pontificatus sui anno octavo.

Vobis quod ex tunc de cetero in perpetuum Vos seu Magisteri et Procuratores a vobis prò tempore deputati et nullus alius Ecclesiam et Hospitale praedicta ac illorum mobilia et immobilia nec non sesemoventia bona oblationes elemosinas res et iura quaecumque administrare regere et gubernare et in substentationem capellanorum in dieta Ecclesia in divinis prò tempore deserventium et Hospitalis praedicti utilitatem ad vestrum liberum nutum convertere, nec non quoties vobis videretur unum vel plures Capelanos saeculares seu de licentia suorum superiorum cuiusvis ordinis regulares ponere et amovere, ac per eos vel alios missas et alia divina officia in eadem Ecclesia celebrari facere.

Nec non quaecumque statuta et ordinationes licita et onesta Confraternitatem in ipso Hospitali canonice institutam nec non bona oblationes elemosinas res iura Capellanos celebrationem et alia permissa ac eorum quodeumque quomodlibet concernentia condere alterare mutare et de novo edere, ac quascumque poenas in contravenientes apponere libere et licite possetis ipsisque Capellanis ut Missas et alia divina officia in dieta Ecclesia celebrare etiam libere et licite valerent, nullius licentia desuper requisita, nullusque Apostolica vel mixta auctoritate de praemissis vel eorum aliquo directe vel indirecte quovis quaesito colore absque expressa licentia omnium et singulorum confratrum Confraternitatis huiusmodi nemine discrepante sed aliquatenus intromittere posset Auctoritate Apostolica de speciali gratia indulsit ac desuper licentiam et facultatem concessit.

Decernens quascumque provisiones erectiones applicationes ac dispositiones de Ecclesia Ho­spitali bonis et aliis praedictis vel eorum aliquo per Romanum Pontificem vel loci Ordinarium prò tempore existentem aut Sedem Apostolicam seu eius legatos aut alium quemeumque ordinaria Apostolica delegata vel mixta aut alia quavis auctoritate fungentes ex tunc de cetero faciendas ac forsan factas et nondum effectum sortitas, nullius roboris vel momenti exsistere ac penitus prò infectis quoad omnia haberi, et sic per quoscunque iudices quavis auctoritate fungentes, sublata eis et eorum cuilibet quavis aliter iudicandi et interpetrandi facilitate et auctoritate iudicari et deffiniri debere, irritum quoque et inane quiquid secus supernis quoquam quavis auctoritate scien-ter vel ignoranter contigeret attemptari non obstantibus constitutionibus et ordinationibus Apostolicis ceterisque contrariis quibuscumque.

Ne autem de absolutione indulto concessione et decreto praedictis prò eo quos super illis dicti Praedecessoris eius superveniente obitu literae Apostolicae desuper confectae non fuerint, valeat quomodolibet haesitari, vos que frustramini effectu volumus et similiter Apostolica Auctoritate decernimus quod absolutio indultum concessio et decretum Praedecessoris huiusmodi perinde a dicto die quarto kalendas maij suum sortiatur effectum, ac si super illis ipsius Praedecessoris literae sub eiusdem diei datae confectae fuissent prout superius enarratur, quodque praesentes litterae ad probandum piene absolutionem indultum concessionem et decretum Praede­cessoris huiusmodi ubique sufficiant nec ad id ulterius probationis adminiculum requiratur.

Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam Nostrae voluntatis et decreti infringere, vel si ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attemptare praesumpserit indignationem Omni-potentis Dei ac Beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum.

Datum Romae apud Sanctum Petrum, Anno Incarnationis Dominicae Millesimo Quingente-simo Trigesimo Quarto Tertio Nonas Novembres Pontificatus Nostri Anno Primo.

Locus Sigilli… pendente in ea bulla plumbeo cum cordula rubea et gialla Paulus PP. III».

21  ASD-SAG, S. V., voi. I, f. 297r, ove risulta che la fondazione caritativa ha ampliato la sua missione, accogliendo i trovatelli del tempo per cui viene eretto un altare intitolato «Nunziatella». Ancora oggi i bambini e i fanciulli abbandonati dai genitori presso istituti o opere pie sono chiamati in gergo popolare «figli dell’Annunziata».

22 L’esclamazione chiude il plico: «De subsidio charitativo prò Curia Episcopali contra Oeconomos Ecclesiae SS. Annuntiatae», ritrovato dal cancelliere Antonio Abbatiello nel 1975, restaurato nel 1976 presso la Badia di Cava dei Tirreni e custodito nell’archivio parrocchiale della SS. Annunziata.

23 «Deo optimo Maximo / et deiparae Virgini Annunciationis / titulo insigni sacellum tectum / portamque marmoream et pone altare / subsellia ioannis baptista burzillus / ioannis nlcolaus saxa et caelius benedictus / collegae operisque praefecti diliGENTER / ET FIDELITER INSTAURARUNT POSUERUNTQUE / Anno a salutari Christi ortu MDLXIIII / tempore vero gubernationis istius Civitatis magnificorum Marcelli Sabaste / Ioannis Caroli De Stabile Ioannis / Antonii Ferraiolo et Dominici Cosse».

24 Dei rapporti tesi tra Curia e Universitas Civitatis risulta testimonianza anche nel secolo XVIII in un documento d’archivio, redatto dal notaio Angelo Vischi di Troia nel 1704, durante l’episcopato di Filippo Albini (1699-1722): ASD-SAG, Platea honorum Mensae Episcopalis, ff. 17r-18r.

25 P. Bargellini, Mille Santi del giorno, Vallecchi, Firenze 1984, p. 136.

26 Sarà denominata in seguito «Santa Maria de Pace», per diventare infine, dopo la beatificazione del fondatore dei Fatebenefratelli, avvenuta nel 1630, «dei Frati del Beato Giovanni di Dio»: ASD-SAG, S. V. 9, ff. llr-28v. Una copia della «Convenzione» è conservata nell’archivio parrocchiale di questa chiesa.

27 ASD-SAG, S. V 5, ff. 253r-260r. Ivi 1, ff. 394r sgg.

28 «Invenit organum devastatum. Pro ilio reactando, mandavit idem organum collocar! supra portam magnam ecclesiae ubi iam inceptum est dum iconomi presentes aliter sentirent»: ASD-SAG, S. V. 6, ff. 47r-51v. Durante i lavori di restauro del 1976, rimosso l’organo, questi affreschi sono stati recuperati. Oggi la mostra dell’organo a canne, datata 1624, è esposta nel salone degli stemmi presso l’episcopio della città.

29 «Deo Optimo Maximo / Palladinus vir egregius Tiberius Silvius / et Albentius Mastrantoni fratres una/nimes comitis calsantuni equitum legiona/ry sed omnium maxime signifer Albentius / sacellum hoc sibi suisque tantum haeredibus / A fundamentis singuLIS DIEBUS ET EORUM FUNE/RA SACRA FIANT ET QUOTO ANNO INSTAURENTUR / INFERIAE ANNO DO­MINI MDCXIX».

30 ASD-SAG, S. V. 1, f. 297r. Ivi 7, f. 48r.

31  ASD-SAG, S. V 10, fi 3,.

32 «Est in dieta ecclesia in alto repositum pulpitum ligneum de noce a manu destra cum pinnacolo […] cum armis Civitatis»: ASD-SAG, S. V 3, f. 286v. «Suggestus ligneus ad levam intrantis ecclesiae prope ianuam quae ducit ad impluvium Fratruum Sancti Ioannis Dei elevatus est et habet schalas a parte dicti impluvii et repertus est indigere foribus ne concionatores perniciem patiantur»: ASD-SAG, S. V 14, ff. 97r-110r.

33  ASD-SAG, S. V 14, ff. 97r-110r.

34 Tommaso Giaquinto «ritrovato». Un itinerario pittorico in Valle Caudina, Catalogo della mostia tenutasi a Molano, Eletta, Napoli 1993, pp. 44-56; Tommaso Gìaquinto. Restauri e nuove ac­quisizioni, a cura di G. Porrino, Eletta, Napoli 2003, p. 79.

35 ASD-SAG, S. V. 18, ff. 2óv-27r.

36 ASP-AGP, SAG, Schede di Notar Biscardi. p. 162.

37 ASD-SAG, S. V. 23, f. 291r.

38 «Anno 1727: pagato a Giovanni Cosenza pittore per il freggio alla Chiesa con quadri d. 65,00»: ASP-AGP, SAG, libro esito, p. 142. «Anno 1739: pagato dal signor Domenico Ciardullo al signor Giovanni Cosenza per la pittura del quadro grande di mezzo della soffitta colla pittura della medesima e per colori e gesso d. 75,00»: ivi, f. 187r. «Subtus coelo Ecclesiae oculis spectantium patet icon eiusdem Virginis ab Angelo salutata multum admodum laudabilis»: ASD-SAG, Miscellanea Nuova Ramaschiello 3, f. 365r. Durante i lavori di restauro del 1965-1971 la tela è… scomparsa!

39 ASD-SAG, Bollano 13, ff. 31v-32r.

40 «Deo Optimo Maximo / Scipioni Mustillo iatrophysico / honesto loco inter suos NATO / POLITIORIBUS LITTERIS ET ANTIQUIS MORIBUS / PRAEDITO / QUI / NULLUM PENE DIEM PAS-SUS EST ABIRE / IN QUO DE CIVIBUS SUIS / DEQUE US PRAESERTIM QUOS DURA PREMIT PAUPERTAS / PRO FORTUNARUM MODO ALIQUID NON ESSET MERITUS / PIETATEM VERO EIUS ET INDUSTRIAM / TEM-PLUM HOC TESTATUR 1PSUM / CUIUS GUBERNACULO ILLE ABSTINENTISSIME SEDIT / QUODQUE VETU-STATE FATISCENS / AB INCHOATO RESTITUENDUM / ET IN ELEGANTIOREM FORMAM REDIGENDO CU-RAVIT / HUIC / CAPELLANARUM COLLEGIUM MICHAEL NUZZUS GUBERNATOR / ET PETRUS IOSEPH ClARDULLUS AMICORUM MOERENTISSIMUS / HUIUS TITOLI AUCTOR GRATI ANIMO CAUSSA PP. / VlXIT Anno LVIII mense UH die II / desideratus est VI kalendis Novemb[ris] CIDI3CCLXXXII [1782]». Collocata in origine sotto l’affresco del Giudizio, oggi si trova nella cappella di S. Gio­vanni di Dio.

41 ASP-AGP, SAG, Congrega di Carità-Deliberazioni 1864-74. pp. 4748. ASD-SAG, Miscellanea Nuova Ramaschiello 3, f. 365r.

42 ASD-SAG, Miscellanea Nuova 1, p. 16.

43 ASP-AGP, SAG, Miscellanea Unica: la lettera è datata S. Agata dei Goti 10-7 1925 n. 97. Oggetto: Vendita di quadro artistico. «Ill.mo Sig. Sottoprefetto Cerreto Sannita.

Nella Chiesa di A.G.R appartenente a questa Congregazione di Carità, trovasi un quadro, rappresentante l’Annunciazione, il quale è stato da persone competenti valutato oltre mezzo milione, sia per l’antichità, che per il pregio artistico. Recentemente, il prof. Angelucci, il quale, ol­tre ad essere una illustrazione della scienza oculistica, è un appassionato intenditore ed amatore di oggetti d’arte, ha dichiarato di esser disposto ad acquistarlo per un milione. Siccome la realiz­zazione di tale somma verrebbe a risolvere la questione della beneficenza locale, poiché con una nuova rendita di circa lire cinquantamila questa Congrega di Carità potrebbe esplicitare in una forma molto più larga la pubblica beneficenza, donando ancora maggiore impulso all’ospedale civico ed all’ospizio dei poveri, io stimo essere un atto di saggia amministrazione e di grande op­portunità la vendita del detto quadro, specialmente ora che l’alto costo della vita rende sempre più difficile e meno efficace l’opera dei pii istituti. Prego, pertanto, la S.V. 111. perché voglia com­piacersi di darmi il suo autorevole parere a tale riguardo, indicandomi ancora le pratiche che oc­correrebbe compiere, per addivenire alla detta vendita, trattandosi di un oggetto sacro e di alto valore artistico. Con perfetta osservanza. Il Commissario (f.to) M. Mosera».

44 R. Causa, Il Miracolo di un restauro, in «Roma», 29 maggio 1977. p. 3.

45  G.M. Dossena, Il pittore che piaceva a Picasso, in «L’Europeo», 33 (1977), 50, pp. 66-69.

46 L. Campanile, Le vetrate di Cassinari in Sant’Agata dei Goti, in «Avvenire», 29 maggio 1977, p. 6.