Abside

Abside

Nel suo impianto architettonico, la chiesa della SS. Annunziata in Sant’Agata de’ Goti ha una particolarità: l’abside asimmetrica rispetto alla navata. Probabilmente non si tratta di un errore di progettazione, ma di una scelta teologica. Le piante delle antiche chiese, infatti, rappresentava no sempre il segno della croce, di cui l’abside era la parte più alta, dove in base al racconto evangelico di Giovanni (19, 30) era poggiato il capo reclinato di Cristo nel momento della morte. L’architetto del tempo, forse, inclinò la pianta dell’abside rispetto alla navata per rappresentare in modo plastico questo evento.

Questo spazio sacro era reso più accogliente o rivestendo le pareti con drappi di seta o affrescandole, anche per raccontare al popolo di Dio, per lo più illetterato, la storia della salvezza.

Grazie alla generosità di qualificate committenze, ciò è stato realizzato anche nella chiesa della SS. Annunziata, con affreschi di pregevole fattura che risalgono alla seconda metà del Trecento e ai primi anni del Quattrocento.

Si tratta di affreschi devozionali, raffiguranti, oltre al tema dell’Annunciazione, cui la chiesa è dedicata, figure di santi. In alcuni casi – particolarità che caratterizza l’impianto iconografico dell’abside -, ai ritratti dei santi sono affiancati riquadri di dimensioni ridotte che raffigurano episodi importanti – per lo più eventi miracolosi – della loro vita.

In alto, al centro dell’arco gotico, è possibile ricostruire l’immagine di un’Annunciazione attraverso i frammenti dell’angelo e della Vergine vestita di azzurro. Quando alla fine del Quattrocento vi fu collocato il polittico attribuito ad Angiolillo Arcuccio (oggi nella prima cappella a sinistra; fig. 88), la lettura del grande affresco fu irrimediabilmente compromessa dall’apertura di una grande finestra.

La monofora ricuperata e la parte bassa dell’abside furono in origine decorate con motivi geometrici, di cui, grazie ai lavori di restauro del 1977, sono emerse significative tracce. In seguito parte di queste decorazioni fu ricoperta da uno strato di intonaco per inserire nuovi e, per i contemporanei, più importanti affreschi.

Sullo spigolo sinistro dell’arco trionfale troviamo un piccolo ritratto di santo Stefano (fig. 44). Egli fu tra i primi sette diaconi nominati dagli apostoli e il primo martire della Chiesa. Si riconosce per la dalmatica, che è la veste liturgica del diacono, per la palma del martirio e, soprattutto, per le pietre conficcate sul capo, a ricordo della morte avvenuta per lapidazione. L’artista ha disposto le pietre quasi a forma di corona, forse alludendo al fatto che, secondo Iacopo da Varazze, «Stefano è un nome greco, che vuol dire corona […] Fu infatti una corona, cioè il primo, l’inizio dei martiri del Nuovo Testamento, corrispondente a quello che è Abele nel Vecchio Testamento […] È dunque una corona in quanto inizio del martirio…»1. Santo Stefano è l’antico protettore della città insieme con sant’Agata, un tempo anch’essa rappresentata sullo spigolo opposto dell’arco in un ritratto purtroppo perduto.

La parete sinistra

Sulla parete sinistra dell’abside (figg. 43 e 45) è affrescato, a grandezza d’uomo, il trittico raffigurante l’arcangelo Gabriele, san Leonardo (vissuto nel VI secolo) e la vergine Maria. L’autore è certamente uno degli artisti che ha condotto la realizzazione del Giudizio Universale sulla controfacciata della chiesa.

La centralità di san Leonardo sembra interrompere la scena dell’Annunciazione. I committenti di questo affresco, molto probabilmente i medesimi che commissionarono la realizzazione del Giudizio Universale2, hanno voluto rendere grazie al santo non tanto perché difensore dei carcerati, ma piuttosto come protettore delle partorienti e della prole e, quindi, delle famiglie. La Legenda Aurea narra che Leonardo, predicando in ogni luogo, compì molti miracoli, vivendo in un bosco presso la città di Limoges, dove c’era una dimora del re destinata alla caccia. Accadde una volta che il re stava lì a caccia, e la regina, uscita a passeggio, si trovò in pericolo di morire di parto. Il re e tutto il seguito piangevano per la morte della regina: ma Leonardo passava per il bosco e sentì i loro gemiti. Mosso a pietà, corse in fretta verso di loro e, invitato dal re, entrò. Il re gli chiese chi era, e avendo risposto che era il discepolo di san Remigio, il re prese a bene sperare, pensando che un buon maestro l’avesse ben istruito; lo fece entrare dove si trovava la regina, sperando di ottenere dalle sue preghiere la duplice grazia della guarigione della regina e della nascita della prole. Leonardo si mise in preghiera e ottenne subito quanto il re chiedeva3.

Le quattro figure di committenti rappresentate in ginocchio ai piedi del santo sembrano i membri di una famiglia composta dalla madre, dal padre e da due figli, una ragazza e un ragazzo4. È probabile che l’atto votivo dei due genitori sia la conseguenza di due parti felici, i cui frutti sono ritratti anch’essi in preghiera. Questa interpretazione giustificherebbe la posizione centrale di san Leonardo, tra l’angelo annunziante e la vergine Maria: il protettore delle partorienti suggella il mistero dell’Incarnazione.

Al di sopra del trittico è raffigurato il tabellone di sant’Antonio abate (fig. 46), vissuto nel IV secolo. La figura centrale, di grandi dimensioni, è affiancata da sei piccoli riquadri che descrivono alcuni episodi della sua esistenza. Il santo è raffigurato, secondo la tradizione iconografica, come un vegliardo dalla lunga barba; indossa il saio monastico, ha il capo coperto da un cappuccio, impugna nella mano sinistra un bastone a forma di tau (simbolo dalla metà del XII secolo dell’ordine di sant’Antonio, adottato forse in ricordo di quello a forma di stampella che il santo avrebbe usato in tarda età) mentre, con la mano destra, sorregge un libro.

Dei sei riquadri affrescati, quelli posti a sinistra rispetto all’immagine del santo sono purtroppo danneggiati e non facilmente leggibili. Nel primo in alto, sant’Antonio è ritratto in un ambiente urbano – lo suggeriscono i palazzi raffigurati alle sue spalle – insieme a quattro figure femminili.

Il santo benedice una donna sorretta da una compagna. Dalla bocca della donna a cui è impartita la benedizione esce un piccolo diavolo nero (le condizioni dell’affresco sono tali da fare solo intravedere una esile macchia scura che esce dalle labbra dell’indemoniata). La scena si riferisce ad un episodio narrato da sant’Atanasio nella Vita s.Antonii Magni5 e relativo al viaggio compiuto da Antonio ad Alessandria per combattere l’eresia ariana. A quanto riferisce la leggenda, il santo fu avvicinato da una donna che chiedeva aiuto per la propria figlia tormentata dal diavolo. Egli pregò in silenzio Gesù e, immediatamente, lo spirito maligno uscì dal corpo della giovane, suscitando la gioia della madre e la meraviglia dei presenti (fig. 47). Scena, questa, forse rappresentata nel riquadro sottostante, purtroppo assai compromesso, dove si percepisce la figura del santo ritratto nel medesimo scenario, indizio di una continuità narrativa. Anche il terzo quadro è lacunoso: la presenza di una montagna rocciosa lascerebbe supporre che in origine vi fosse dipinto un episodio relativo alla vita eremitica del santo.

I tre quadri a destra si riferiscono invece all’incontro con san Paolo eremita (figg. 48 – 50), di cui narrano la Vita Pauli6 e la Legenda Aurea7. Antonio credeva di essere il primo fra i monaci ad avere intrapreso la vita eremitica, ma scoprì, grazie ad un sogno rivelatore, l’esistenza di un altro uomo che lo aveva preceduto in questa scelta, con uno stile ancora più radicale. Desideroso di conoscerlo, iniziò a cercarlo nella boscaglia. Dopo avere incontrato misteriose creature, gli venne incontro un lupo che lo accompagnò dove risiedeva san Paolo. Il primo quadro in alto si riferisce proprio all’incontro tra i due anacoreti: Antonio ha appena varcato la soglia                 dell’eremo, raffigurato come una struttura architettonica medievale e non, secondo quanto affermava la Vita Pauli, come una spelunca8; sembra rivolgere la parola a Paolo, come lascia supporre la gestualità della mano destra. Nel quadro successivo è rappresentato il commiato, occasione in cui Paolo rivela ad Antonio la propria morte imminente. Paolo è in terra, supino, e Antonio, in piedi, gli impartisce la benedizione. La leggenda agiografica ci dice che Antonio, mentre faceva ritorno al suo eremo, vide l’anima di Paolo portata in cielo dagli angeli; tornò allora immediatamente sui suoi passi e trovò il corpo di Paolo in atteggiamento orante, in ginocchio, tanto da sembrare ancora vivo. Antonio, dopo aver recitato gli inni e i salmi dovuti, si rattristò di non potere dare una degna sepoltura al proprio compagno, poiché non aveva nulla per scavare una fossa. Miracolosamente però apparvero due leoni che si diressero subito presso il cadavere, iniziarono a scavare una buca e si allontanarono solo quando il corpo di Paolo fu sepolto. È questo il tema dell’ultimo quadro: la scena si svolge fuori dall’eremo che, anche in questo caso, è rappresentato come una chiesa medievale. Due angeli sorreggono su un telo di lino l’anima orante di san Paolo, vestita di bianco; il corpo esanime di Paolo è a terra e Antonio, con un piccolo libro, è intento a recitare le preghiere; i due leoni scavano una fossa per la sepoltura. Ciò che nella letteratura agiografica viene scandito in più azioni è stato qui sintetizzato efficacemente in un unico quadro.

E interessante osservare come in questi affreschi, conformi al canone figurativo della vita di sant’Antonio, ci sia stata una fusione di elementi appartenenti a due diversi racconti agiografici.

Gli episodi più tardi della vita di Antonio – relativi all’incontro con Paolo -, che non compaiono nei racconti delle vite a lui dedicate, bensì in quelle che si occupano della vita di Paolo, vengono qui raffigurati insieme, come brani tratti da un unico testo, quasi a voler ricomporre più parti di un racconto che la tradizione letteraria ha invece separato.

La diffusa devozione locale nei confronti di sant’Antonio abate è attestata da un ulteriore ritratto del santo, diverso come fattura e stile da quello sopra descritto e dipinto sulla parete absidale opposta. L’eremita è raffigurato, secondo l’iconografia che gli è propria, come un vegliardo con il saio monastico, non indossa però il cappuccio. Al suo fianco compaiono i committenti di questo affresco, una coppia in ginocchio, in preghiera. Le mani di proporzione smisurata evidenziano il loro atteggiamento orante. Insieme alle due figurette l’artista ha riprodotto, in modo quasi ingenuo, un porcellino nero; forse anche l’animale avrà beneficiato dell’intervento salvifico del proprio santo protettore (figg. 67 – 68).

L’iconografia ha spesso ritratto sant’Antonio accompagnato da un porcello; all’origine di questa raffigurazione sarebbe stato il privilegio conferito all’ordine antoniano – risalente al 1095 – di allevare in libertà i maiali9, purché portassero al collo una campanella come segno di riconoscimento. La diffusione del culto a sant’Antonio sarebbe scaturita invece grazie alle miracolose guarigioni di malati di ergotismo10, detto anche «fuoco sacro» o «fuoco di sant’Antonio», verificatesi a partire dal secolo XI nella Francia meridionale e attribuite alle reliquie del santo11. Sopra il tabellone istoriato di sant’Antonio è raffigurato un trittico piuttosto lacunoso (fig. 43): l’arcangelo Michele nell’atto di trafiggere Lucifero, san Nicola di Mira che sorregge con la mano destra il fanciullo Adeodato12, di cui si intravede solo la parte inferiore del corpo, e san Tommaso d’Aquino, che sorregge la sua Summa Theologiae. Al di sopra i frammenti superstiti lasciano supporre una rappresentazione della Sacra Famiglia.  Nell’ammirare il recupero dell’antica monofora, che in origine filtrava il primo sole del mattino,  lo sguardo si sposta sulla zona destra della parete, ove è rappresentata una Crocifissione (fig. 51).

L’affresco, sovrapposto ad una più antica campitura azzurra, testimonia nei lineamenti dell’unico volto ancora godibile, quello di san Giovanni evangelista, una significativa influenza della scuola giottesca, di cui si hanno importanti testimonianze nel territorio campano.  In basso è rappresentato un trittico piuttosto frammentario, ove si riesce a leggere l’immagine della Madre «di Dio»  (parola, quest’ultima, un tempo espressa dal termine Theon  di cui rimane la lettera greca iniziale theta) con in braccio il bambino Gesù.  Il Bambino ha la mano destra rivolta verso la Madre e con la sinistra regge una pergamena arrotolata (fig. 52).

Le altre due figure sono illeggibili, anche se il frammento di scrittura della prima sembra riferirsi a san Nicola da Tolentino (personaggio che è affrescato anche sulla parete destra), mentre il fodero di una lunga spada nella seconda sembra richiamare l’attributo iconografico di san Giuliano. Infine, si possono ammirare le figure di san Gregorio Magno, come indica la scritta (Gregorius), e del Battista nell’atteggiamento di proclamare la presenza tra gli uomini dell’«Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (fig. 53).  Il primo è ritratto come di consuetudine con la tiara e con il libro delle Sacre Scritture nella mano sinistra, mentre con la destra impugna uno stilo.

Il secondo mostra la presenza dell’Agnus Dei: indica l’Agnello, simbolo cristologico,   all’interno di una piccola sfera rossa ormai sbiadita e tiene il cartiglio con le parole pronunciate  in  occasione  del  battesimo  di  Cristo nel  fiume  Giordano: Ecce (agnus) dei,  ecce qui  (t)ole(t)  (peccatum mundi)13, (Giovanni, 1, 29).   Ai lati del Precursore sono richiamati i momenti più salienti della sua vita (fig. 43): il battesimo di Gesù nel fiume Giordano, la danza di Salomè e il martirio nel carcere di Macheronte. Al di sotto della monofora sono rimasti alcuni frammenti della Fuga in Egitto, riconoscibile per la donna col bambino in braccio su di un asinello tirato da un uomo . L’immagine fa parte di un trittico che comprendeva l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio, affreschi strappati durante i lavori di recupero dell’antica monofora e oggi collocati nella navata della chiesa (fìgg. 89 – 90).

Nel registro sottostante il frammentario affresco dell’Annunciazione, la parete centrale (fig. 54) presenta un originario trittico, di cui restano solo due figure (fìgg. 55 – 56). Sono, come indicano le relative didascalie, san Lorenzo (S. Larentius), martire del III secolo, e ancora il Battista (S. ]oh[ann]es ba[ptist]a), ritratto secondo il canone già incontrato nella parete sinistra. Sono affreschi di pregevole fattura, come dimostrano i volti, il movimento delle mani e la ricchezza del vestito del santo diacono. Ai piedi di Giovanni è raffigurato, in atteggiamento di preghiera, il committente dell’affresco. Più in basso sono rimasti due piccoli riquadri che con ogni evidenza illustravano la vita di un vescovo martire, vittima della persecuzione imperiale.

Il primo mostra un angelo che solleva dalle acque il vescovo gettato in mare dai soldati. Il martire è ritratto nudo, con la mitra e l’aureola, indizio di conclamata santità. Nel secondo riquadro, legato ad un palo, egli subisce la flagellazione ordinata dall’imperatore ad opera di due carnefici, uno dei quali di chiara origine africana (fìgg. 58 – 59).

Queste bellissime immagini ci ricordano un tema caro all’agiografia campana, tratto da passiones redatte tra il IX e il XII secolo. È il topos dei santi martiri cristiani di origine africana, che vengono imbarcati su navi sconquassate dai loro persecutori, con l’intento di farli morire in mare e disperdere le loro potenziali reliquie tra i flutti. Ma il santo equipaggio, grazie all’intervento divino, spesso rappresentato con la figura di un angelo-guida, riesce a raggiungere incolume le coste campane14. Lo narra per primo Vittore di Vita (V secolo) nella Storia della persecuzione vandalica in Africa15: «Allora [Genserico] ordinò che persino il vescovo della summenzionata città, cioè di Cartagine, noto a Dio e agli uomini, che aveva il nome di Quodvultdeus, e una grandissima turba di ecclesiastici, imbarcata su navi sfasciate, nudi e spogliati fossero cacciati via. Ma il Signore nella misericordia della sua bontà si degnò di farli pervenire con prospera navigazione a Napoli, città della Campania»16.

Su una nave forata furono imbarcati, ad esempio, i vescovi africani Prisco17, Castrese, Rosio, Canione e Tammaro18, vittime della persecuzione dell’imperatore Valente (368 o 378); ma ognuno di essi, grazie all’aiuto di un angelo, raggiunse la sede episcopale che Dio gli aveva predestinato.

Protagonista di una traversata miracolosa fu anche sant’Erasmo, vissuto in Siria nel IV secolo e vittima della persecuzione dell’imperatore Diocleziano; fu liberato dalle prigioni imperiali da un angelo, con cui sorvolò il mare per raggiungere l’Illirico e poi Formia19.

Queste narrazioni si diffusero nel medesimo periodo in cui le coste campane furono meta delle incursioni saracene. Probabilmente la devozione per questi particolari tipi di santi servì ad esorcizzare il pericolo che veniva dal mare20.

Volgendo lo sguardo agli affreschi non è facile stabilire chi sia il santo qui raffigurato. Si potrebbe supporre che si tratti di sant’Erasmo perché il suo culto, a livello locale, ebbe una diffusione più fortunata rispetto ai santi Castrese, Canione, Prisco, ecc.; lo testimonia la chiesa a lui dedicata nel XIV secolo a Durazzano, in prossimità di Sant’Agata de’ Goti21.

Al centro della parete, al di sotto della monofora che filtra la luce attraverso i colori densi e ricchi della vetrata di Bruno Cassinari (fig. 91), due angeli sorreggono il Crocifisso; l’affresco, con molta probabilità, sovrastava l’antico altare addossato alla parete, così come prescrivevano le norme liturgiche del tempo.

Segue l’immagine di una santa di origini regali (indossa una corona), che sostiene con la mano sinistra una scatola lignea suddivisa in tre comparti e con la destra, aiutata da un utensile simile ad uno stretto cucchiaio, sembra mescolarne il contenuto. Gli oggetti che impugna sono uguali a quelli che talvolta sono soliti identificare i santi Cosma e Damiano22, che praticavano l’arte medica.

È possibile che si tratti di santa Elisabetta d’Ungheria (1207- 1231), figlia del re Andrea e attiva nella cura degli ammalati23. Se così fosse, questa immagine rappresenterebbe una versione piuttosto singolare della santa, che più spesso veniva ritratta come una terziaria francescana (fig. 60). Il culto di Elisabetta d’Ungheria fu particolarmente sostenuto, nel territorio campano, da Maria d’Ungheria, pronipote della santa e moglie di Carlo II. Fu lei a commissionare gli affreschi con le storie della vita di santa Elisabetta nella chiesa di S. Maria Donnaregina, a Napoli.

Chiude la parete il tabellone istoriato di san Biagio (S. Blasius), vescovo e martire del IV secolo24, il cui martirio sarebbe avvenuto all’epoca dell’imperatore Diocleziano o dell’imperatore Licinio. Anche in questo caso la figura intera del santo – ritratto con una lunga barba bianca, mitra, pastorale e in atto benedicente – è attorniata da piccoli riquadri che ricordano episodi particolari della sua vita (figg. 61 – 62). La prima scena, in alto a sinistra, si riferisce al periodo in cui il santo, appena eletto vescovo di Sebaste, città della Cappadocia, andò a vivere in una caverna presso il monte Argeo per sfuggire alla persecuzione imperiale. Egli è raffigurato in una grotta, dove in ginocchio prega (fig. 63). La letteratura agiografica narra che visse in estrema solitudine nel proprio eremo; soltanto gli animali selvatici si recavano da lui mansueti e non si allontanavano finché egli non avesse posto su di loro la mano in segno di benedizione. Il tema dell’affetto del santo verso gli animali fu assai diffuso nell’agiografìa dell’Alto Medioevo latino; uno degli episodi più ricorrenti, utilizzati per manifestare la familiarità tra santo e bestie selvatiche, fu proprio quello degli animali braccati dai cacciatori che venivano salvati dall’ospitalità di un eremita25

Attraverso questa familiarità si manifestava il potere del santo sul mondo animale e quindi l’obbedienza che esseri inferiori osservavano davanti a chi era sottoposto totalmente a Dio26. Il primato dell’uomo sul mondo animale era del resto un concetto acquisito del pensiero cristiano: «Dio poi benedì Noè e i suoi figli, dicendo loro: siate fecondi, moltiplicatevi […] La paura di voi e il terrore di voi siano in tutti gli animali selvatici e in tutti gli uccelli del cielo, come in ognuno che striscia sulla terra e in tutti i pesci del mare; essi sono dati in vostro potere» (Genesi, 9, 1-2)27. Ma l’uomo del Medioevo difficilmente riusciva a porsi come dominatore sulla natura, anzi ne era spaventato. E gli animali del deserto, resi mansueti dai primi eremiti, come i due leoni che aiutano sant’Antonio abate a scavare la tomba di san Paolo, erano visti, nel mondo occidentale, come la fauna delle foreste, con i suoi orsi e i suoi cervi, per citare solo due delle specie più diffuse e temute. L’uomo medievale, non riuscendo a sottomettere la natura, si affidava ai santi eremiti, che riuscivano a domarla in virtù della loro totale dedizione a Dio28.

Tornando al primo quadro del tabellone di san Biagio, vediamo che l’eremita è in atteggiamento orante, ma volge lo sguardo ad un gruppo di uomini che sembrano essersi uniti a lui da poco. Singolare episodio che non ha riscontri nelle fonti letterarie, in cui è scritto che gli unici uomini incontrati dal santo nel proprio eremo furono dei soldati, mandati dal governatore della provincia. Questi, durante una vana battuta di caccia, trovarono animali di ogni specie dimorare in tranquillità proprio lì dove Biagio era intento a pregare. La familiarità del santo con gli animali è invece rappresentata, seppure in secondo piano, da figure ormai sbiadite, poste alle spalle dei fedeli in preghiera, tra le quali si distingue un piccolo quadrupede bianco.

Il riquadro subito in basso testimonia la cattura del santo ordinata dal governatore imperiale; due soldati scesi da cavallo (si vedono ancora le zampe anteriori di un animale) afferrano l’eremita che non oppone resistenza (fig. 64).

La terza scena, che presenta grosse lacune, mostra l’incontro avvenuto nella città di Sebaste tra san Biagio, condotto dai soldati imperiali, ed il governatore Agricolao, seduto in trono e con in capo la corona di alloro. La presenza di una colonna sormontata da un idolo (una piccola figura bianca antropomorfa) fa ipotizzare che questa scena non si limiti a rappresentare l’incontro tra il temibile governatore Agricolao, «immitis, ferox, crudelis et secundum nomen suum agrestis»29, e Biagio, ma tenti anche di descrivere l’occasione in cui avvenne uno scambio di battute tra i due, che la letteratura agiografica ci ha tramandato. Sarebbe il momento in cui Agricolao saluta Biagio chiamandolo provocatoriamente «amico degli dei»; mentre il santo, rispondendo prontamente, definisce gli dei «demoni». La risoluta risposta del santo ne sancì l’incarcerazione e la fustigazione.

L’ultimo riquadro rimasto è relativo ad un celebre evento miracoloso (fig. 65): un bambino soffocato da una lisca di pesce viene guarito dal santo. Tra le figure prossime al carcere del santo – Biagio è in prigione, lo suggerisce la struttura architettonica in cui è inserito – in primo piano è una madre, che mostra al santo il proprio figlio, sostenendogli il capo. L’artista lo ha ritratto con la bocca aperta, proprio come chi, avendo difficoltà respiratorie, socchiude le labbra sperando di poter trarre un poco di giovamento. Biagio, richiamato dalle invocazioni di aiuto della donna, impartisce la benedizione al fanciullo inginocchiato davanti a lui. Gli agiografi ci informano che nel momento in cui Biagio fece il segno della croce vicino alle labbra del bambino, questi immediatamente espulse la lisca di pesce e guarì.

L’episodio ebbe tanta fortuna nel corso dei secoli che ancora oggi il 3 febbraio, giorno anniversario della morte del santo, i fedeli sono soliti farsi ungere la gola con l’olio benedetto. Nella stessa ricorrenza in Francia, Spagna, Germania e Italia venivano distribuiti – e in alcuni luoghi la tradizione sussiste ancora – piccoli pani che nella forma ricordavano le parti del corpo malate; a Milano in occasione della festa di san Biagio si mangia una fetta di panettone conservata appositamente dal giorno di Natale30.

La parete destra (fig. 66) si presenta interamente affrescata senza la monofora, ma con un occhio di luce che permette al sole di mezzogiorno di rischiarare lo spazio sacro. Gli affreschi sono disposti su tre registri: sul primo, in alto, è rimasta la figura di sant’Antonio abate, già descritta, e resti di una Annunciazione; sul secondo sono effigiate le storie di sant’Orsola, di san Nicola da Tolentino e quelle di un santo di dubbia identificazione; sul terzo, la Sacra Famiglia, san Nicola di Mira ed un santo diacono. Un primo grande affresco dedicato a sant’Orsola è purtroppo assai lacunoso. Ma è evidente che la santa era stata ritratta in posizione centrale, attorniata dalle vergini che condivisero con lei il martirio. Le figure femminili rivolte in preghiera verso la santa sono infatti tutte raffigurate con il nimbo. Orsola, figlia di Noto o Mauro, principe cristiano della Gran Bretagna vissuto nel IV secolo, fu martirizzata a Colonia insieme alle sue undicimila compagne31.

Si racconta che un arrogante re d’Inghilterra volesse far sposare il proprio figlio unigenito con Orsola, nota ovunque – come si conviene ad una futura santa – per contegno, sapienza e bellezza. Per ritardare l’indesiderato matrimonio, la giovane convinse il padre ad acconsentire alla volontà del sovrano (una risposta negativa alla proposta di questi avrebbe potuto scatenare una guerra), purché lei potesse disporre di un periodo di tempo pari a tre anni da dedicare ancora alla sua verginità e affinché il futuro sposo fosse istruito nella fede. Le furono concesse dieci vergini per esserle di compagnia e consolazione e poi ancora altre mille vergini furono concesse alle undici fanciulle. Ponendo molte difficoltà. Orsola cercava di distogliere il re dal suo proposito. Passati i tre anni concordati, la giovane fuggì con una flotta di undici triremi insieme alle sue undicimila compagne. Durante il viaggio, nei pressi di Colonia, un angelo le apparve predicendole che in quel luogo avrebbero tutte ricevuto la corona del martirio. Su indicazione dell’angelo si diressero a Roma, dove papa Ciriaco le ricevette con grandi onori. Scrive Iacopo da Varazze:

Durante la notte il papa ebbe la rivelazione divina che anch’egli avrebbe ricevuto la palma del martirio assieme a tutte le vergini. Non ne parlò a nessuno; battezzò anche tutte le vergini che non erano ancora state battezzate, e visto che era ormai giunto il momento opportuno, dopo essere stato il 19° successore di Pietro per un periodo di un anno e 11 settimane, radunò tutti e rivelò il suo proposito, rinunciando alla carica e ai suoi onori32.

La Legenda Aurea ci informa che il papa fu ritenuto folle, le vergini definite dal clero di Roma «donnette pazze»33. I capi dei soldati di Roma, Massimo e Africano, vedendo la moltitudine di vergini e la folla che accorreva per unirsi ad esse, temettero che la religione cristiana si diffondesse troppo per causa loro. Studiarono quindi l’itinerario dell’insolito corteo e mandarono messaggeri al re degli Unni, perché le vergini fossero trucidate appena giunte a Colonia. Questo l’antefatto.

L’artista inizia la narrazione della storia di sant’Orsola dal viaggio attraverso il mare compiuto dalla moltitudine di vergini accompagnate da papa Ciriaco. Il pontefice, riconoscibile dalla tiara, è seduto sull’imbarcazione, a poppa, e benedice sia le donne salite a bordo che quelle che stanno per imbarcarsi; la nave è ormeggiata, la vela non è ancora stata spiegata (fig. 70). Nella seconda scena la nave, con il suo carico di santità, viaggia per raggiungere Colonia (fig. 71). La vela in questo caso è stata disegnata spiegata, gonfia per la forza del vento. La città dell’annunciato martirio è prossima: si scorgono i palazzi su una rupe rocciosa.

Papa Ciriaco sembra avere le funzioni di un comandante, che, consapevole dell’obiettivo da raggiungere, conduce il proprio equipaggio verso la meta prefissata, ovvero il martirio.  Il pontefice impartisce l’ultima benedizione alle vergini; tra queste è raffigurata, in primo piano, Orsola34. Nell’ultimo riquadro è illustrata la strage delle vergini: cavalieri e fanti escono dalla cinta muraria della città e infieriscono sulla folla cristiana disarmata. Gli ultimi a soccombere sono proprio papa Ciriaco e sant’Orsola, entrambi feriti mortalmente dalle lance degli Unni (fig. 72). Così è narrato nella Legenda Aurea il martirio della santa:

Quando i barbari le videro si gettarono urlando contro di loro, e si scatenarono furiosamente come lupi fra gli agnelli, uccidendo tutta quella moltitudine. Quando, massacrate le altre, giunsero a sant’Orsola, il capo degli Unni, vista la sua bellezza, rimase pieno di stupore, e, cercando di consolarla della strage delle altre vergini, le promise che l’avrebbe sposata. Orsola però rifiutò, e il capo unno, vistosi disprezzato, le scagliò contro una freccia, che la trapassò uccidendola35.

Palese è l’affermata santità di Orsola e delle sue compagne attraverso il sacrificio nel sangue: nel momento stesso in cui si compie il martirio sono ritratte col capo nimbato.A fianco del tabellone istoriato di sant’Orsola è visibile quello dedicato a san Nicola da Tolentino. Il nome del santo è deducibile attraverso i resti di una didascalia apposta a lettere bianche su fondo azzurro nel riquadro che lo ritrae a figura intera. Egli appare, come di consuetudine, con aspetto giovanile, il viso glabro, il capo tonsurato (fig. 73 ).  Secondo la Vita redatta da Pietro da Monterubbiano56, la sua nascita, avvenuta a Sant’Angelo in Pontano nel 1245, fu dovuta alla intercessione di san Nicola di Mira, che l’aveva preconizzata ai suoi genitori in un sogno. Il bambino, dalle precoci inclinazioni ascetiche, già a undici anni entrò come oblato presso i frati dell’ordine di sant’Agostino, nella propria città natale. La sua vita fu caratterizzata da una condotta esemplare, fatta di preghiera, sacrifici, digiuni e costanti attenzioni nei confronti dei bisognosi, che confortò con numerosissimi miracoli, anche dopo la propria morte.

Il primo quadro degli affreschi propone il «miracolo delle pernici» (fig.74). L’evento prodigioso fu testimoniato da Berardo Accorimboni, vescovo di Camerino ( 1310-1327 ), durante il Processo di canonizzazione del santo3‘. Il prelato asserì che, intorno al 1305, fu servito a Nicola, debilitato dai costanti digiuni a cui era solito sottoporsi, un piatto con una coppia di pernici arrosto. Il santo, desideroso di perseverare nella penitenza, invece di mangiare, benedisse la pietanza, e subito i due uccelli si misero a volare. Il santo è ritratto a letto, malato, e indossa il saio: è probabile che, con questo dettaglio, il pittore abbia voluto alludere alla radicale scelta di vita in austerità e in povertà del santo, che si copriva soltanto con rozze tuniche’8. Le sue mani sono in atto benedicente, mentre un confratello gli porge un piatto ormai vuoto, sul quale si intravedono le ali spiegate di due uccelli ormai sbiaditi.

Il secondo riquadro descrive la liberazione di una ossessa, sul volto della quale si possono ancora intravedere le tracce nere di diavoli in fuga dopo l’intervento taumaturgico del santo (fig. 75). Il terzo quadro si riferisce invece ad una guarigione o forse a un ritorno alla vita di una giovane donna (fig. 76). Entrambe le scene non possono essere ricondotte a specifici episodi taumaturgici del santo, poiché non sussistono elementi che possano farci identificare con certezza l’identità delle due donne. È possibile dunque, viste le numerosissime guarigioni dalle più svariate patologie e le molte liberazioni di ossessi attribuite ai poteri miracolosi del santo, che le due scene si riferiscano in maniera generica alla prodigiosa capacità di Nicola di guarire gli ammalati e di liberare gli indemoniati39. Nel quarto quadro, il primo in alto alla sinistra del santo, Nicola benedice un impiccato. L’uomo, con una veste bianca e le mani legate dietro la schiena, è ritratto mentre viene liberato dal cappio. La fune non è intorno al collo del condannato, ma pende sulla sua testa, a significare la riacquistata libertà per opera di san Nicola (fig. 77).

La scena, molto probabilmente, si riferisce all’episodio della liberazione dei fratelli Mizulo e Vanni40. I due confessarono la responsabilità di un omicidio mai compiuto per non subire le atrocità di un interrogatorio accompagnato da torture. Condannati all’impiccagione, i fratelli si affidarono alla intercessione del santo. Il primo a subire la condanna fu Vanni. Ma quando, dopo quattro giorni, i boia si recarono sul luogo dell’esecuzione per uccidere Mizulo, trovarono Vanni miracolosamente vivo. Riconosciuto l’intervento di Dio, supremo giudice, avvenuto per intercessione di Nicola, liberarono anche Mizulo.

L’affresco immortala la liberazione di Vanni, ma ricorda, in senso più ampio, la capacità che ebbe il santo di liberare molti prigionieri accusati ingiustamente. Egli diveniva, agli occhi dei fedeli, il celeste aiutante su cui riporre le speranze in caso di sentenze inique. Scorrendo le testimonianze degli atti di canonizzazione del santo è frequente, infatti, imbattersi in storie di rocambolesche evasioni dal carcere messe in atto da uomini condannati ingiustamente proprio grazie all’intervento di Nicola41

Segue, subito in basso, il miracolo delle anime salvate dal purgatorio (fig. 78). L’episodio, narrato anche questo nella Vita scritta da Pietro da Monterubbiano, rappresenta uno dei prodigi giovanili del santo, da poco sacerdote e residente nell’eremo di Valmanente, nei pressi di Pesaro. Proprio qui, una notte, Nicola fu richiamato dalla voce del defunto frate Pellegrino da Osimo, tormentato dalle fiamme del purgatorio. Egli implorò Nicola di celebrare una messa per i morti, affinché potesse essere posta fine al suo tormento e a quello delle anime che pativano le sue stesse sofferenze. Dal giorno successivo, e per un’intera settimana, Nicola celebrò messe per i defunti, finché, il settimo giorno, frate Pellegrino gli apparve, ringraziandolo per essere stato liberato42.

La scena è ambientata all’interno di una chiesa; il santo in paramenti bianchi sta celebrando messa e innalza con le mani l’ostia consacrata davanti all’altare. Alle sue spalle un ministrante sostiene un cero pasquale acceso, simbolo di resurrezione, mentre la campana della chiesa suona spontaneamente, annunciando l’accaduto miracolo: un angelo sta portando in cielo l’anima di frate Pellegrino4‘.

Da questo evento prodigioso, raffigurato anche a Tolentino, nel Cappellone di S. Nicola, deriva la pratica secolare della «messa di san Nicola»44, celebrata in suffragio delle anime di cui il santo fu ritenuto patrono.

Nell’ultimo quadro viene invece proposta una allegoria del santo in qualità di pacificatore45. San Nicola è ritratto mentre benedice un contadino e un soldato che si rivolgono a lui a mani giunte (fig. 79). Il culto di Nicola da Tolentino, unico santo «contemporaneo» ritratto nell’abside della SS. Annunziata, si diffuse subito dopo la sua morte, avvenuta nel 130546. La devozione dei fedeli nel territorio campano fu immediata, come dimostrano le testimonianze del Processo, e sicuramente sostenuta dalla fervente pietà di Sancia di Maiorca, moglie del re Roberto d’Angiò (1309-1343). L’immagine di questa regina comparirebbe tra quelle dei numerosi committenti del ciclo del Cappellone di S. Nicola da Tolentino47.

Il secondo registro si chiude con un tabellone istoriato di difficile interpretazione (fig. 80). La figura centrale propone un santo dall’aspetto giovanile, glabro, con la chioma bionda e con indosso una tunica rossa. Oltre a un libro, che impugna con entrambe le mani, il personaggio non possiede attributi particolari che possano rendere agevole la sua identificazione, né i riquadri che lo circondano ne facilitano l’interpretazione.

Quelli alla sua sinistra sono quasi illeggibili, mentre i corrispondenti alla destra presentano un forte contrasto stilistico tra i primi due ed il terzo, eseguito da mano più esperta in un secondo momento (fig. 81). È proprio questa terza scena che presenta indizi facilmente interpretabili: all’interno di una chiesa un santo monaco, che la dicitura piuttosto sbiadita dice chiamarsi Gu(ie)l(mu)s, rende atto di sottomissione ad un vescovo. Il santo indossa un saio bianco e questo porterebbe a riconoscerlo, come suggerisce anche la dicitura, in Guglielmo da Vercelli48 (1085-1142), fondatore della congregazione benedettina di Montevergine, ritratto mentre presta obbedienza al vescovo Giovanni di Avellino che riconosce l’utilità e la santità del suo ordine religioso49.

Ma, se tutto il tabellone fosse stato dedicato a Guglielmo da Vercelli, ci troveremmo di fronte ad una palese incongruenza rispetto all’iter narrativo dei tabelloni precedenti: il santo a figura intera non ha alcun attributo che lo identifichi come san Guglielmo. Difficile anche l’interpretazione dei due riquadri in alto, il cui stato di conservazione non agevola la leggibilità. Nel primo un re è rappresentato nell’atto di impartire un ordine a due cavalieri. Nel secondo due uomini a cavallo, forse due cacciatori (quello a sinistra ha qualcosa in mano, probabilmente della cacciagione), incontrano un                   santo dall’aspetto trascurato, con abiti da contadino, un rozzo cappello, scalzo e con il viso coperto da una leggera barba. Sembra impugnare una bacchetta, un fuscello, con cui potrebbe sostenersi nel cammino. Questa scena potrebbe riguardare, con una certa forzatura, l’incontro tra san Guglielmo, intento a cercare un sito ricco di acqua per fondare il proprio monastero, e due cacciatori, esperti conoscitori del luogo, che gli indicarono una sorgente50.

Ma resta insoluto il significato della scena soprastante e, soprattutto, il riferimento alla figura centrale. È dunque ipotizzabile una stratificazione di affreschi relativi a due diversi soggetti agiografici, giunti a noi sovrapposti e privati del loro programma narrativo originario. Forse l’inserimento postumo del riquadro con san Guglielmo fu realizzato per solennizzare la costruzione del monastero dei verginiani avvenuta nella città di Sant’Agata de’ Goti durante l’episcopato di Giacomo Martone (1346-1350)51. Il terzo registro della parete si apre con una grossa lacuna che, tuttavia, lascia intravedere la figura di san Giuseppe con il bastone fiorito. In ogni caso della Sacra Famiglia si è salvata la Madonna che mostra al Bambino una mela (fig. 69).

Con chiaro riferimento al celebre racconto del Genesi, la Madre sembra voler presentare al Figlio, frutto del suo grembo, la necessità di riparare la colpa originale di Eva.

Segue il tabellone istoriato di san Nicola di Mira’2, ritratto mentre tiene per i capelli il fanciullo Adeodato; la figura di Adeodato, beneficiario di uno dei più celebri miracoli del santo, è divenuta uno degli attributi iconografici identificativi di Nicola (fig. 85). La prima scena illustra la nascita del santo (fig. 82).

La madre, Giovanna, ha appena partorito e riposa nella sua camera, distesa nel letto. Due donne le porgono generi di conforto per alleviare le fatiche del parto.  La prima servente, che indossa una veste color senape, sostiene una ciotola con la mano sinistra, mentre con la destra sembrerebbe offrire un batuffolo, imbevuto forse di sostanze rinvenenti, sali probabilmente. La seconda donna porge invece alla puerpera una ciotola colma di cibo. E un’immagine tratta dalla realtà quotidiana e tutta al femminile: una donna che ha appena partorito riposa nel proprio letto: altre donne, che hanno assistito al parto, recano conforto alla puerpera e si occupano del primo bagno del neonato (fig. 83).

Nel Medioevo erano proprio le donne che si occupavano delle partorienti e, più in generale, delle malattie femminili. La stanza in cui avveniva il parto era preclusa agli uomini. La scena qui raffigurata non differisce molto nei contenuti dalla Nascita della Vergine (1342) di Pietro Lorenzetti conservata a Siena, nel Museo dell’Opera del Duomo. Anche in quest’opera sono ritratte delle donne che si prodigano in favore della partoriente e del neonato.

Tornando con lo sguardo ai nostri affreschi notiamo che il bambino dimostra subito, sin dalla nascita, doti straordinarie, presagio di una personalità fuori dal comune: egli infatti è già in piedi, ben dritto, ed è intento a                 pregare con le mani giunte. «Il giorno in cui nacque, mentre lo stavano lavando, Nicola si alzò e rimase in piedi nel catino; e per di più il mercoledì e il venerdì prendeva il latte una sola volta al giorno»53.

L’autore dell’affresco ha proposto un altro importante segno per testimoniare l’eccezionalità del neonato: Nicola non viene lavato in una semplice tinozza, ma in una vasca che ha le sembianze di un fonte battesimale. Il primo bagno del neonato assume un significato ben più importante, è divenuto allegoria della purificazione dal peccato originale attraverso il battesimo. E Nicola, mondo da ogni macchia, sembra essere già pronto a dedicare la propria vita alla preghiera.

Il secondo quadro si riferisce invece ad una delle più celebri azioni caritatevoli compiute dal santo: il dono di monete d’oro. Narra la leggenda agiografica di tre sorelle, diventate talmente povere da non potere avere una dote ed essere maritate; il padre, disperato, pensò di farle prostituire. Nicola, venuto a conoscenza della situazione, si interessò subito a loro. L’aiuto del santo, giovane e non ancora ordinato sacerdote (nell’affresco è ritratto con il capo tonsurato, come i chierici), avvenne tempestivamente, ma, secondo il precetto cristiano per cui la buona azione del credente deve restare anonima, con grande discrezione. Nicola gettò infatti di nascosto una somma d’oro racchiusa in un sacchetto all’interno dell’abitazione della famiglia bisognosa; compì questa azione di notte, approfittando del riposo del padre e delle fanciulle per non essere riconosciuto. Il padre, sorpreso dall’inaspettata grazia, utilizzò il misterioso dono come dote per la primogenita, che fece sposare. Ma l’estrema povertà lo costrinse a pensare di fare prostituire le altre due figlie. Nicola dunque ripetè la sua offerta una seconda volta e poi una terza, così che ognuna delle tre ragazze potesse disporre della propria dote ed essere sposata. Solo la terza volta l’uomo, che vegliava per scoprire il proprio benefattore, udito il tintinnio dell’oro, riuscì a riconoscerlo in Nicola.

Il quadro che si propone ai nostri occhi è inequivocabile: le tre fanciulle dormono nel loro letto; il padre veglia seduto vicino a loro nella speranza di poter scorgere chi sia l’anonimo donatore – l’uomo ha gli occhi socchiusi, non dorme, anche se la sua postura suggerisce che egli sia piuttosto assonnato, quasi in procinto di addormentarsi – ed ecco che dalla finestra si sporge Nicola con il suo sacchetto carico di denaro (fig. 84). Anche in questo contesto54 la narrazione attraverso le immagini tende a sintetizzare ciò che la letteratura sviluppa in maniera estesa, concentrando più elementi di una vicenda in un unico quadro.

Nell’affresco è raffigurato l’epilogo della storia, come dimostrano la contemporanea presenza del padre che vigila per conoscere il proprio benefattore e di tutte e tre le ragazze, benché le fonti letterarie ci dicano che due di esse si fossero già sposate e quindi, almeno secondo la nostra logica, non avrebbero dovuto dormire insieme. Ma l’iconografia medievale privilegia gli elementi che a prima vista identificano un personaggio, una storia. Elementi, o anche dettagli, che al nostro sguardo sembrerebbero incongruenze anche grossolane non lo erano per le donne e gli uomini a cui queste immagini erano destinate e per i quali tali elementi dovevano essere leggibili con facilità. Importante in questo contesto non è la necessità di riproporre una storia in tutte le sue tappe (siamo noi che guardandole abbiamo bisogno di ricorrere agli antefatti per comprenderne il significato), ma quella di immortalarla attraverso i suoi elementi distintivi più importanti. L’episodio delle monete d’oro fu così celebre che l’iconografia privilegiò, come attributo principale del santo, proprio tre sfere d’oro – compensando con la tridimensionalità la riduzione del numero -. associando la figura di Nicola di Mira principalmente alla sua azione misericordiosa.

Il terzo riquadro propone le immagini della consacrazione a vescovo di san Nicola che, ricevuti la mitra e il pastorale, impartisce la sua prima benedizione episcopale (fig. 86). Dopo questo fatto [episodio delle tre fanciulle], venuto a morire il vescovo della città di Mira, si riunirono gli altri vescovi per provvedere a una nuova elezione. Era presente fra gli altri un vescovo di grande prestigio e autorità, dal quale dipendeva la scelta di tutti gli altri. Questi aveva raccomandato a tutti preghiere e digiuni; la notte stessa udì una voce che gli diceva di mettersi, all’alba, fuori dalla chiesa e di fare attenzione a chi sarebbe entrato per primo: quello (il cui nome doveva essere Nicola) avrebbe dovuto essere consacrato vescovo.

Informò gli altri vescovi e raccomandò loro di continuare a pregare, mentre lui si sarebbe messo di guardia alla porta. E, come per un prodigio, al mattino, quasi accompagnato da Dio. comparve per primo Nicola.

–   Come ti chiami? – gli chiese il vescovo fermandolo. E lui, che aveva il candore di una colomba, inclinato un poco il capo, rispose:

–   Sono Nicola, servo della vostra santità.

Lo portarono subito in chiesa e malgrado tutte le sue resistenze lo fecero sedere sul seggio episcopale55.

L’ultimo riquadro dedicato agli episodi della vita di san Nicola ritrae il miracoloso «rapimento» del fanciullo Adeodato messo in atto dal vescovo di Mira (fig.87). Il fanciullo Adeodato (chiamato così perché secondo i suoi genitori concesso da Dio tramite l’intercessione di san Nicola cui erano profondamente devoti) fu vittima di un rapimento ad opera dei Saraceni e destinato al loro re come schiavo. Nel giorno anniversario di san Nicola, il giovane, che serviva alla mensa del re, si rattristò pensando a come avrebbe potuto trascorrere gioiosa una tale ricorrenza nella sua casa paterna.

Il sovrano, accortosi del suo cruccio, lo minacciò: «Qualunque cosa faccia il tuo Nicola, tu rimarrai qui con noi»56. Subito si sollevò un forte vento che mise a soqquadro la casa e portò via Adeodato con la coppa in                 mano. Il fanciullo fu restituito ai devoti genitori presso la chiesa in cui si trovavano per festeggiare il giorno anniversario di san Nicola, divenuto l’artefice della sua liberazione.

Il fanciullo è ritratto durante un banchetto, mentre porge dell’acqua alla regina e presumibilmente a sua figlia, che siede accanto a lei. Alla destra delle due donne era raffigurato – l’affresco è piuttosto rovinato – il re nell’atto di minacciare il malinconico Adeodato. Degno di nota è l’elemento decorativo che orna le pareti interne della reggia e che rievoca l’arte musiva orientale. Il lusso è ben visibile sulla tavola, apparecchiata con una tovaglia chiara, con delle decorazioni a rombi anch’esse chiare, che conferiscono al tessuto un aspetto serico. Oltre ad eleganti coppe, un piccolo pane ed una ciambella, spiccano due coltelli: il manico nero ben solido e la lama ricurva e appuntita attribuiscono ai due utensili ben affilati un aspetto minaccioso. Adeodato, vestito elegantemente, come si addice al servo di un sovrano, svolge il proprio ruolo di coppiere inconsapevole del prodigio che è in atto: non si è infatti ancora accorto che san Nicola lo ha afferrato per i capelli e sta per portarlo in salvo.

Questa leggenda sembra essere sorta intorno al IX-X secolo57, periodo in cui i territori dell’Italia meridionale erano spesso oggetto delle incursioni e dei saccheggi inferti dalla pirateria araba. La stessa leggenda, in versione in parte diversa e di origine orientale, narra di un fanciullo di nome Basilio, figlio di contadini abitanti presso Mira, rapito dagli Arabi di Creta durante la vigilia della festa di san Nicola e miracolosamente liberato dal santo58. Creta fu conquistata dagli Arabi intorno all’anno 824 e fu base strategica per la pirateria saracena. L’eco delle violente scorrerie degli «infedeli», ma anche il timore di subire il rapimento dei propri figli per farne degli schiavi59, sono senz’altro all’origine di questo episodio leggendario. I genitori sfortunati a cui era stato rapito un figlio potevano sperare nell’intercessione e nella consolazione di san Nicola, protettore dell’infanzia.

Il culto del santo fu molto diffuso nel territorio beneventano e nella città di Sant’Agata de’ Goti. La diffusione, che generalmente si crede successiva alla traslazione delle reliquie del santo nella città di Bari (9 maggio 1087), ha invece origini più antiche. Tanto era radicata in Campania la venerazione per questo santo che, prima del 1096, a Benevento fu composto il libello Adventus S. Nycolai in Beneventum60 per testimoniare come, nonostante Bari ne possedesse il corpo, san Nicola fosse solito compiere miracoli principalmente nella città campana. L’opera ci informa che anche due abitanti di Sant’Agata de’ Goti, un uomo affetto da cefalea e suo figlio gobbo, consigliati da parenti e amici di andare a Benevento presso la chiesa di S. Nicola e fiduciosi nell’intervento taumaturgico del vescovo di Mira, guarirono miracolosamente61.

Ma la competizione che opponeva le città di Benevento e di Bari coinvolgeva anche san Nicola ed altri santi locali. Degno di nota, poiché interessa proprio il territorio saticolino, è un particolare spirito di antagonismo che interessò il culto di san Menna del Sannio. L’eremita, vissuto nel VI secolo sul monte Taburno e venerato nella stessa Sant’Agata de’ Goti – dove si può ancora ammirare la chiesa a lui dedicata -, fu ritenuto un diretto antagonista di Nicola di Bari62. Leone Marsicano narra di una donna lombarda che decise di portare il figlio demente presso la tomba di Nicola, a Bari. Giunta nella chiesa, esausta dal viaggio, dalle preghiere recitate e dalle lacrime versate, si addormentò davanti all’altare. In sogno le apparve un uomo vestito di bianco che la rimproverò di perdere tempo, perché suo figlio avrebbe potuto essere curato da san Menna. Si recò dunque sul monte Taburno, presso Sant’Agata de’ Goti, ma saputo che le reliquie del santo erano state traslate, si recò a Caiazzo. Durante il cammino, non ancora giunta presso il santuario, suo figlio guarì63“.

Nonostante gli sforzi apologetici dei sostenitori di san Menna, a poco valsero i tentativi di espugnare il culto di Nicola di Bari: la chiesa della SS. Annunziata – che si trova a pochi metri da quella dedicata a san Menna -ci offre ancora testimonianza di affreschi votivi dedicati al vescovo di Mira, ma nulla che onori la memoria del santo saticolino.

Chiude le serie degli affreschi della parete absidale destra il ritratto di un santo diacono, di incerta identificazione, vestito di bianco e con la palma del martirio. È possibile che si tratti di san Vincenzo, diacono e marti re del IV secolo. Tale fu la devozione nei suoi riguardi che a lui fu dedicata la famosa abbazia presso il fiume Volturno, non lontano da Sant’Agata de’ Goti, il cui fiume, l’Isclero, ne è affluente.

Gli affreschi dell’abside nel loro insieme e, in particolare, i tabelloni istoriati possono essere interpretati come una sorta di «antologia» della cultura agiografica campana medievale. In essa prevalgono figure di santi dei primi secoli cristiani, martiri, santi originari del mondo orientale64.

Attraverso queste immagini i fedeli imparavano a conoscere, o riportavano alla mente, le gesta dei loro eroi spirituali. Gesta che corrispondono sostanzialmente ai miracoli, all’intervento soprannaturale su cui la devozione popolare confidava in caso di malattie, insidie della natura, ingiustizie della società, possessioni diaboliche.

Il santo, mediatore tra cielo e terra, guarisce malati e libera prigionieri. Attraverso l’esorcismo allontana i demoni e reintegra gli ossessi, visti dalla società con sospetto, come un pericolo sociale da emarginare.

Per stabilire un contatto, una relazione con il santo e poter beneficiare delle sue virtù, il fedele pronunciava delle invocazioni, delle preghiere, a cui seguiva un voto che implicasse una offerta. Questi affreschi, commissionati per lo più come ex-voto, sono una testimonianza tangibile di questa pratica devozionale.

 

Note

1  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed. italiana a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, p. 60.

2  San Leonardo è ritratto anche nel Giudizio Universale, tra le schiere dei beati.

3  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 848.

4  L’ipotesi è suggerita sia dalla consuetudine che vede spesso membri di una stessa famiglia ri­tratti a margine di affreschi votivi, sia dagli abiti del personaggio maschile ritratto per

secondo. Egli è un ragazzo, perché indossa una gonnella corta che mette in vista le calze, secondo la moda dei giovani del tardo Trecento. L’uomo che lo precede ha invece abiti

lunghi, da adulto: questo farebbe supporre che tra i due ci sia un legame padre-figlio.

5  Ada Sanctorum (da ora in avanti indicato con AA. SS.) lanuarii, t. II, Venetiis 1734, pp. 120-141.

6  AA. SS. lanuarii, t.I, Venetiis 1734, pp. 604-607.

7  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., pp. 113-114.

8  AA. SS. lanuarii, t.I, cit., pp. 604-607, citazione a p. 607.

9  Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. II, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1962, coli. 106-136, in particolare coli. 114-115.

10 L’ergotismo è un’intossicazione dovuta alla segale cornuta, cioè contaminata da un fungo tossico).

11  Cfr. A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 69.

12 Del personaggio di Adeodato si parlerà in seguito, in relazione ad altri affreschi su san Nicola.

13 Dove tolet sta per «tollit».

14 A. Vuolo, La nave dei santi, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, a cura di G. Vitolo, Liguori, Napoli 1999, pp. 57-66.

15 Victor Vitensis, Historia persecutionis Africanae provinciae, a cura di M. Petschenig, Vindobonae 1881 (Corpus criptorum Ecclesiasticorum Latinorum, VII), p. 8, citato ivi, p. 63. Per
l’edizione italiana: Vittore di Vita, Storia della persecuzione vandalica in Africa, a cura di S. Costanza, Città Nuova, Roma 1981 (Collana di testi patristici, 29), pp. 34-35.

16 Sul rapporto tra topos agiografico e Historia persecutionis Africanae provinciae scrive Antonio Vuolo: «Peraltro, a conferma di questa correlazione, mi sembra significativo che le più

importanti testimonianze manoscritte dell’opera di Vittore di Vita risalgano ai secoli IX e XII, cioè appunto al periodo nel quale la nostra tematica con le sue varianti si propagò in area

campana. D’altra parte, c’è da chiedersi se la diffusione di questa tematica sia stata provocata solo da uno stimolo letterario oppure abbia avuto anche una motivazione storica. In realtà

credo  che i due aspetti siano correlati, perché di solito ogni testo conserva, al di là delle sollecitazioni imposte dal proprio genere letterario, le tracce di eventi esterni. Nel nostro caso la

circostanza contingente potrebbe identificarsi con l’insicurezza delle coste campane provocata tra i secoli IX e X dalle frequenti incursioni saracene, a motivo delle quali le popolazioni

rivierasche furono costrette a scorgere nel mare non più tanto una risorsa per la loro sopravvivenza, quanto invece la causa di un timore quotidiano. Allora, è probabile che proprio per

esorcizzare questo incombente pericolo, peraltro già contrastato in quello stesso arco di tempo da varie e ben note iniziative militari, culminate nella famosa distruzione del temibile

insediamento saraceno alle foci del Garigliano nel 915, l’agiografia campana abbia cominciato a far ricorso al tema della nave dei santi e della sua prodigiosa navigazione»: La nave dei 

    santi, cit., p. 63.

17 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. X, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1968, coli. 1114-1117, in particolare col. 1115; Bibliotheca Casinensis, III, Florilegium, Montecassino 1877,

pp. 373-374; AA. SS. Septembris, t. I, Parisiis et Romae 1868, pp. 99-107, in particolare pp. 209-219.

18 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. X, cit., col.. 1114-1116; ivi, vol. III, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1963, col. 945; AA. SS. Septembris, t. I, cit., pp. 209-219.

19 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. IV, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1964, coli. 1288-1290; AA. SS. lunii, t. I, Venetiis 1741, pp. 211-219.

20 Cfr. nota 16.

21 L’ipotesi non risolve del tutto l’interpretazione dei due riquadri: in particolare le versioni della passione di sant’Erasmo non dicono che il santo fu gettato in mare dai soldati imperiali. Unascena

simile al primo riquadro è raffigurata sul candelabro pasquale (XIII secolo) del duomo di Gaeta, in cui in quarantotto quadri sono raffigurate scene della vita di Gesù alternate, secondo una

disposizione bustrofedica, a scene della vita di sant’Erasmo. In particolare, la traversata del mare Egeo vede l’angelo e il santo su una nuvola, mentre in basso è ritratto il mare ondoso, ricco di

pesci, con due barche in balia dei flutti. A lato è stata scolpita una prigione vuota, ad indicare la fuga miracolosa dal carcere. Non ci sono, come nella chiesa della SS. Annunziata, dei soldati che

gettano in mare il vescovo. Cfr. M. Pippal, Der Osterleuchter des Doms S. Erasmo zu Gaeta, in «Arte medievale», II (1984), p. 203, fig. 7. Gli studi sulla tradizione manoscritta della passione

di sant’Erasmo denunciano inoltre molti dettagli in comune con quella di Canione di Atella, e in generale con le passioni di antichi martiri. Una notevole fluidità narrativa, che utilizza luoghi

comuni ed episodi leggendari attribuendoli a santi diversi, caratterizza la produzione agiografica campana del IX-X secolo, rendendo assai difficile discriminare, nel campo dell’iconografia, un

santo da un altro. Cfr. G. Desantis, Il culto di s. Erasmo fra Oriente e Occidente, in «Vetera Chri-stianorum», 29 ( 1992), fase. 2, pp. 269-304; F. Dolbeau, Le dossier de saint Canion d’Atella. 

     A pro-pos d’un livre récent, in «Analecta Bollandiana», 114 (1996), pp. 109-123. Sulle diverse versioni della vita di sant’Erasmo cfr. V. von Falkenhausen, Problemi di traduzione di testi

     agiografici nel Medioevo: il caso della Passio sancti Erasmi, in Santità, culti, agiografia. Temi e prospettive. Atti del I Convegno dell’AISSCA, Poma 24-26 ottobre 1996, a cura di S. Boesch

     Gajano, Viella, Roma 1997, pp. 129-137.

22 Si veda in proposito G. Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Sansoni, Firenze 1952, col. 290, fig. 331.

23 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 927: «Lei stessa visitava i malati: la compassione per gli infelici tanto le toccava l’anima che cercava i loro alloggi e li visitava con premura…»;

Bibliotheca Sanctorum, voi. IV, cit., coli. 1110-1124.

24 Cfr. Bibliotbeca Sanctorum, vol. III, cit., coll. 158-70; AA. SS. Februarii, t. I, Parisiis et Romae 1858, pp. 331-353.

23 P. Baglioli, Il santo e gli animali nell’Alto Medioevo, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo. Atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di Studi sull’Alto

     Medioevo, Spoleto 7-13 aprile 1983, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1985, pp. 935-993, in particolare pp. 975-976.

26 Ivi, pp. 980-981.

27 G. Ortalli, Lupi, genti, culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1997, p. 52.

28 Ivi, p. 53. «Nella visione ‘paradisiaca’ del deserto non bisogna dimenticare la familiarità di quanti vivono, o vi si ritirano, con gli animali selvaggi. È il modello di Antonio e di Paolo, che, in

mancanza di leoni in Occidente, fanno dell’orso, del cervo, dello scoiattolo gli amici e gli interlocutori degli eremiti»: J. Le Goff, Il deserto foresta nell’Occidente medievale, in Id.,

Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 25-44, p. 31.

29 A4. SS. Februarii, t.I, cit., p. 340.

30 L’artista che ha realizzato gli affreschi sulla vita di san Biagio sembra seguire la versione della leggenda agiografica in cui Biagio compie il «miracolo della lisca di pesce» mentre è in prigione e

non lungo il suo itinerario alla volta di Sebaste: cfr. hi, p. 350.

31 Cfr. Bibliotbeca Sanctorum, vol. IX, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1967, coli. 1252-1271; AA. SS. Octobris, t. LX, Parisiis et Romae 1869, pp. 173-281; Iacopo da Varazze, Legenda Aurea,

     cit., pp. 863-867.

32 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 864.

33 «Tutti però protestarono, pensando che gli avesse dato di volta il cervello, dato che voleva lasciare la gloria del pontificato correndo dietro a quelle donnette pazze; egli però non si piegò, e

nominò un sant’uomo, di nome Ameto, al suo posto: per il fatto d’aver lasciato la sede pontificia senza il consenso degli altri, il suo nome fu cancellato dal clero dalla lista dei papi, e quel

grancoro di vergini perdette dal quel momento tutto il favore di cui godeva alla corte di Roma»: ivi, pp. 864-865.

34 Antonio Vuolo vede nella leggenda di santa Orsola e della sua nave con migliaia di vergini una variante del tema della nave dei santi: «Se il tema della nave dei santi, con le sue varie sfumature

finora segnalate, si rintraccia nei testi agiografici campani al massimo fino al XII secolo, è pur vero, tuttavia, che tale tematica con maggiori o minori analogie sopravvive altrove. Per

esempio,  in una forma molto simile al racconto campano, essa si ritrova nella Vita di s. Marta e nella Vita di s. Lazzaro, diffuse verso la fine del XII secolo in area provenzale, dove

probabilmente entrambi i testi furono composti; oppure il medesimo tema è ravvisabile, seppur in sottofondo, nella cosiddetta ‘Ursula Schifflein’ ovvero la ‘navicella di sant’Orsola’,

che fu il nome adottato da   numerose confraternite tra i secoli XIV-XV nei territori dell’Impero, in ricordo della prodigiosa navigazione che l’omonima martire avrebbe intrapreso

dalla Bretagna verso quelle terre con il suo  spettacolare corteo di undicimila vergini»: Vuolo, La nave dei santi, cit., pp. 64-65.

35 Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 866.

36 Historia Beati Nicolai de Tolentino ordinis fratrum heremitarum Sancti Augustini composita a fratte Vetro de Monte Rubiano lectore anno MCCCXXVI tempore domini]ohannis 

     Papae XXII,   in AA. SS. Septembris, t. III, Venetiis 1761, pp. 644-664.

37 Cfr. Il Processo per la canonizzazione di san Nicola da Tolentino, ed. critica a cura di N. Occhioni, Padri Agostiniani di Tolentino-Ecole Francaise, Tolentino-Rome 1984,

Teste n. 327, p. 616.

38 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit., cap. IlI, par. 24, p. 648.

39 Negli atti del Processo di canonizzazione, nella sezione Documenta et mandata, si riassumono così le molteplici azioni miracolose del santo: «[…] fuit expositum coram nobis et

fratribus  nostris, etiam cum frequenti instantia et pluries reperita, quod recolende memorie Nicolaus de Tholentino ordinis heremitarum sancti Augustini, Camerinensis diocesis, diutius

in eodem ordine laudabiliter conversatus, sanctitatis nitore dum vixit emicuit, vita et conversatione resplenduit, ac magnis et multis tam ante quam post obitum eius, in resuscitatione

videlicet mortuorum et diversorum curatione morborum, effugatione demonum, illuminando etiam cecos, et liberando captivos, surdis auditum et variis miraculis coruscavit»:

Il Processo per la canonizzazione di san Nicola da Tolentino, cit., pp. 3-4.

40 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit., cap. VIII, par. 80, p. 663.

41 Le testimonianze sono numerosissime: rimando alla sintesi, redatta come prolusione alle testimonianze del Processo di canonizzazione, citata alla nota 39.

42 Historia Beati Nicolai de Tolentino cit, cap. II, parr. 10-12, pp. 646-647.

43 Le scene che riproducono la liberazione dell’anima di frate Pellegrino e dell’indemoniata sono molto simili a quelle affrescate nel XV secolo a Napoli, nella chiesa di S. Giovanni in

Carbonara. Cfr. G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Sansoni, Firenze 1965, fig. 984, col. 823; fig. 986, col. 826.

44 Cfr. F. Bisogni, Il pubblico di san Nicola di Tolentino: le voci e i volti, in Il pubblico dei santi. Torme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici, Viella, Roma 2000, pp. 227-250.

Sulla relazione tra «messa di san Nicola» e le pratiche precedenti scrive Bisogni: «E questo l’unico evento prodigioso, se tale si può dire, di Nicola in vita presentato in questo ciclo

[Cappellone di Tolentino] ma di grande importanza per l’attrattiva del pubblico. Da esso infatti deriva la pratica secolare della ‘messa di san Nicola’ per le anime purganti, riduzione

più economica in ogni senso, e quindi concorrenziale, della più antica ‘messa di san Gregorio’ celebrata sempre per le anime purganti ma che, per condurre a buon fine, doveva essere

celebrata dallo stesso sacerdote, sullo stesso altare, per trenta giorni ininterrotti»: ivi, pp. 232-233.

45 È l’interpretazione data da George Kaftal ad un affresco umbro (secolo XV) – del tutto simile a questo oggetto del nostro studio – che propone le storie di Nicola da Tolentino.

Cfr. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools cit., fig. 991, col. 828.

46 Il riconoscimento della santità di Nicola da Tolentino da parte della Chiesa ebbe invece un corso meno rapido: papa Bonifacio IX concesse l’indulgenza ai pellegrini che si recavano

a Tolentino e si occupò del Processo di canonizzazione senza riuscire a terminarlo, nel 1390, con la bolla Splendor paternae gloriae, e nel 1400, con la bolla Licet is de cuius. 

     La bolla di canonizzazione, Licet militans, risale invece a papa Eugenio IV, che la emanò nel 1446: Bibliotheca Sanctorum, vol. IX, cit., coll. 953-968.

47 «Di immagini di donatori è cosparsa, come si è detto, l’intera superficie affrescata, e questo è un primo pubblico assai qualificato, come la regina nella prima scena in alto, quella

dell’Annunciazione, che altra volta ho proposto di identificare come Sancia di Maiorca sposata nel 1304 a Roberto d’Angiò che diviene re nel 1309. La sua pietà era grandissima e

le sue spese di carattere religioso così ampie che il re: dichiara che l’erario pubblico è estraneo alla prodigalità maniacale della consorte. Dal Processo sappiamo che il culto

di Nicola era esteso anche a Napoli»: Bisogni, Il pubblico di san Nicola di Tolentino cit., p. 235.

48 Guglielmo da Vercelli scelse l’abito bianco perché concorde con la corrente monastica di Citeaux e Camaldoli, contrapposta a quella di Cluny che aveva optato per il nero.

Cfr. Bibliotheca Sanctorum, vol. VII, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1966, coll. 487-489; AA. SS. Iunii, t. V, Venetiis 1744, pp. 112-139.

49  A4. SS. Iunii, t. V, cit., pp. 112-139.

50  Ivi, p. 117.

51  F. Viparelli, Memoria Istorica della Città di Sant’Agata dei Goti, Napoli 1841, p. 60.

52  Si veda C.W. Jones, S. Nicholas of Myra, Bari and Manhattan, University of Chicago Press, Chicago 1978 (trad. it., San Nicola. Biografia di una leggenda, Laterza, Roma-Bari 1983).

53  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., pp. 26-33, citazione a p. 26.

54  Si veda ad esempio l’ultima scena del tabellone istoriato di sant’Antonio abate.

55  Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, cit., p. 27.

56  Ivi, p. 33.

57  Jones, San Nicola cit., pp. 80-82.

58  Ivi, p. 82.

59  Cfr. A. e C. Frugoni, Storia di un giorno cit., pp. 135-141.

60  Adventus Sancti Nycolai in Beneventum, a cura di G. Cangiano, in «Atti della Società storica del Sannio», II (1924), pp. 131-162.

61  Ivi, p. 141.

62  Leone Marsicano, Vita S. Mennatis, PL, CLXXIII, coli. 989-993.

63  Ibid.; citato da Jones, San Nicola cit., p. 213.

64  Cfr. Vuolo, La nave dei santi, cit., pp. 57-58.